MARCANTONIO LUNARDI, PIETAS

Marcantonio Lunardi (Lucca, 1968) si diploma alla scuola di regia documentaristica del Festival dei Popoli di Firenze e successivamente approfondisce i temi del racconto antropologico e sociale presso l’Università di Siena sotto la guida del professor Riccardo Putti e seguendo i masters di specializzazione dei registi Michael Glawogger, Sergei Dvortsevoy, Thomas Heis e Andrés Di Tella. A seguito di questo percorso inizia a interessarsi, come regista, della narrazione sociale e politica in Italia realizzando documentari per conto di enti pubblici e organizzazioni non governative. A partire dal 2011, alla ricerca di un diverso sguardo sul reale, Lunardi si spinge verso il cinema sperimentale e la videoarte.

Del suo ultimo lavoro Pietas, al quale ho avuto il piacere di prendere parte anche io, abbiamo parlato in questa lunga intervista che si dipana tra crisi pandemica ed endemica, futuro distopico e desiderio di progettare una società più equa. Una riflessione colta e intelligente sul tema della compassione, quella verso gli altri e quella verso noi stessi, che ci ricongiunge con il senso profondo della nostra finitudine.

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Francesca Interlenghi: Vorrei iniziare chiedendoti della genesi di questo lavoro, in altri termini le riflessioni che ne costruiscono il substrato concettuale.

Marcantonio Lunardi: Compito dell’artista è osservare il presente per raccontare un possibile futuro. Viviamo in una società in cui le disparità economiche sono sempre più violente ed emergenti ma sempre schermate da una parvenza di ineluttabilità. Dal 2008 in poi siamo stati attraversati da almeno tre grandi crisi che si sono sovrapposte alla prima grande catastrofe finanziaria. Sembra di parlare di entità soprannaturali, come se l’economia fosse una specie di Olimpo dalle dinamiche imperscrutabili, invece ogni tracollo che ci ha travolti ha delle cause antropiche ed entropiche, con azioni e omissioni, spesso con nomi e cognomi di esponenti della finanza e della politica. Viviamo in una società in cui Goldman Sachs e Lehman Brothers possono decidere i destini di tutti senza subirne le conseguenze, con governi che non aggiornano i piani pandemici a protezione della popolazione e nell’assurdità di guerre novecentesche per il controllo delle risorse e del territorio. Tutte queste situazioni ci riportano costantemente indietro rispetto a quel processo di sviluppo ecologico e sociale che viene indicato da tutti come finalità astratta. Da una parte proclamiamo l’economia green e dall’altra ricorriamo di nuovo al carbone. Esaltiamo la pace e nel frattempo sviluppiamo percorsi di guerra. Affermiamo il dialogo tra le culture mentre innalziamo muri in base alle mutevoli alleanze delle potenze in lotta.

L’incertezza lavorativa associata a una discesa verso il basso della classe media ha generato la sensazione di una continua instabilità, una precarizzazione generale delle proprie condizioni di vita. Questo non ha fatto altro che aumentare le tensioni sociali annullando nelle singole persone la visione e perfino la speranza di ogni possibile futuro. Arrivati al periodo COVID ci siamo calati in una delle fasi più buie della contemporaneità. La paura ha dilagato in ogni Paese, la comunicazione ha iniziato il suo incessante martellamento, i fenomeni infodemici hanno alimentato la polarizzazione e i conflitti, tanto quelli reali ed economici quanto quelli simbolici e personali. Ogni giorno una comunicazione da parte del Governo arrivava nelle nostre case, ogni giorno la scansione delle vittime ricordava a tutti che la morte poteva entrare nella realtà di chiunque. La classe politica ha delegato a un gruppo di scienziati il compito di dare una direzione al Paese. Il COVID, dapprima simbolo di morte, era poi diventato un emblema del controllo. In tutto questo caos di sensazioni si è fatta strada l’idea di Pietas come racconto del presente proiettato in un futuro distopico in cui il fuoco, come elemento di distruzione della natura, accompagna simbolicamente ogni scena dell’opera.

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Francesca: Pietas è un titolo importante. Per i latini indicava quel sentimento di affetto e devozione nei confronti dei genitori, della patria o di una divinità. Per te? Quali le declinazioni in questo lavoro? 

Marcantonio: Ho scelto la parola Pietas perché mi interessava riflettere sul sentimento di rispetto per gli altri esseri viventi. In effetti in età romana la Pietas era una cosa diversa da quello che noi oggi intendiamo per pietà. La Pietas esprimeva l’insieme dei doveri che l’uomo aveva sia verso gli altri uomini, sia verso la religione, sia verso la patria. Solo in età tardo classica passa a significare benevolenza e clemenza, significati che poi diventano pregnanti nel senso italiano della parola pietà. Con un simile titolo, ho voluto giocare su questa oscillazione di significati: dal rapporto istituzionalizzato con i propri doveri a una partecipazione reciproca nelle sofferenze degli altri, che ci vede al tempo stesso oggetto e soggetto della compassione. Un po’ come dire che nel comprendere la sofferenza generale degli uomini e della natura, stiamo facendo un gesto di compassione verso noi stessi che di quel genere umano contraddittorio e di quella natura mortificata facciamo parte.

Pietas rappresenta un gesto d’amore verso la società in cui vivo. Un atto di rispetto dovuto all’ambiente in cui sono cresciuto. Pietas era una virtù e lo è ancora oggi. Molti di noi hanno ancora la forza di progettare per costruire una società più equa in cui i più deboli non siano condannati a soccombere e la natura diventi parte integrante del nostro modello di vita. A centro dell’opera ci sono sempre soggetti umani, l’ambiente è in secondo piano ma ciò nonostante è l’elemento scenografico che avvolge costantemente tutto il racconto. La natura passa in primo piano, fondendosi con l’essere umano, solo nel terzo tableau è mostrata una donna il cui sistema circolatorio è collegato ai vasi linfatici degli alberi. I segni delle sue ferite sono sempre presenti in ogni scena e vengono sublimati nel finale dove una vera e propria pietà, intesa come soggetto iconografico, è minacciata o protetta da due enormi ragni meccanici. In quel luogo la Pietas lascia lo spazio alla Pietà, la natura scompare e rimane un anfiteatro di metallo accatastato in cui la fragilità dei corpi si confonde con la durezza di una vita di regole e imposizioni. Si mette in scena una richiesta di pietà per la ristrettezza di una società in cui dominano ancora sopraffazione e violenza.

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Francesca: Dal punto di vista formale operi ancora una volta, e senza tradire la tua cifra stilistica, per quadri, secondo una successione di composizioni statiche, eppure dinamiche. Mi puoi spiegare questa scelta?

Marcantonio: La scelta di utilizzare composizioni statiche viene dal mio lavoro di documentarista. Ho sempre apprezzato i registi che costruivano le loro opere senza voce narrante, con i tempi necessari per l’osservazione della scena, senza dover passare ossessivamente da una inquadratura all’altra per la paura che l’osservatore si annoi. Una scena può narrare moltissimo, un gesto o uno sguardo raccontano più di qualsiasi parola. A partire da questo modo di lavorare in campo documentaristico che implica l’attenzione ai suoni, alle scene, agli sguardi, ho iniziato a comporre le mie opere di video arte. Per il mio lavoro è stata importante la collaborazione con Ilaria Sabbatini, direttrice della fotografia delle mie opere. Attraverso questo connubio ho sviluppato ulteriori raffinatezze tecniche che mi consentono ogni volta di creare il set e muovermi al suo interno senza spostare mai le luci. La specializzazione di Sabbatini come storica medievale ci consente di contaminarci a vicenda mescolando panorami mentali diversi per sviluppare un’estetica specifica applicata alla contemporaneità.

Concepisco le mie opere come successioni di fotogrammi chiave nei quali poi mi muovo con la videocamera inquadrando particolari o porzioni della scena complessiva. Ogni fotogramma descrive uno stato d’animo, un concetto, una condizione umana in cui indago per porzioni di scena fino ad avvicinarmi al quadro successivo. Parto dal fissare per scritto i miei “fantasmi visivi”, ovvero la mie immagini mentali delle scene già composte, per poi disegnarle con delle bozze acquarellate per avere un’idea più articolata della resa visiva finale. Solo al termine di questo processo elaborativo passo alla ricerca delle location e infine andiamo in ripresa.

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Francesca: In questo lavoro la musica ha un ruolo molto rilevante, direi che costituisce un vero e proprio tappeto drammaturgico e non si limita a fare da contorno alle immagini in movimento. Me ne puoi parlare?

Marcantonio: Un giorno Ilaria (Sabbatini ndr), durante uno dei nostri viaggi, mi ha fatto ascoltare una performance di Klaus Nomi che interpretava un una versione live di “The Cold Song”. Il brano, intitolato in realtà “What Power Art Thou?”, è un’aria del King Arthur di Henry Purcell, un’opera inglese del XVII secolo. La scena rappresenta il Genio del freddo, svegliato da Cupido per combattere al fianco di Artù, che racconta il suo desiderio di essere lasciato in pace a morire di freddo. Ed ecco il motivo del tremore simulato nella gestione del fiato che rende così peculiare questo brano. Ho sentito molte interpretazioni diverse del brano studiando la realizzazione della mia opera, ma la prima versione che ho ascoltato è quella che mi ha letteralmente folgorato. È la registrazione del 1983, a pochi mesi dalla morte di Klaus Nomi, che realizza una performance struggente. Il suo canto è freddo, tagliente e interpreta in modo straordinariamente emozionante questa inquietante e bellissima aria.

Mi colpì tantissimo anche il testo: era perfetto per esprimere come mi sentivo interiormente. Il Genio del freddo viene risvegliato per combattere una guerra non sua. Esce forzatamente dal suo sonno e implora di essere nuovamente congelato a morte. Una morte che appare come un riposo, una possibilità per proteggersi da una società che non riconosce più, in cui non mi riconosco più. Così ho scelto quest’aria come piano drammaturgico della narrazione visiva che sarebbe stata costruita. Mancava però un interprete capace di cantare questo brano con la stessa passione e approccio tecnico di Nomi. Grazie al mio caro amico Stefano Giannotti, che lavora con la radio nazionale tedesca e si occupa anche di cinema sperimentale, siamo arrivati a scoprire la voce di Claudio Milano. Una persona rara, per creatività e umana sensibilità, con cui mi sono trovato immediatamente in armonia e che conosceva già benissimo il lavoro di Klaus Nomi. Ha sposato subito il progetto e ha registrato la parte vocale del brano che, come è evidente, ha un ruolo importantissimo in questo lavoro. Il risultato è stato emozionante. Avevamo un brano che creava una narrazione musicale perfettamente coerente con quella visiva. Due storie che attraverso la stessa opera si compenetravano e al tempo stesso percorrevano strade autonome e parallele. Il lavoro di armonizzazione del brano è arrivato attraverso la creatività della compositrice, concertista e soprattutto amica Tania Giannouli con cui ho costruito un vero e proprio connubio artistico fin dal 2013. Giannouli ha saputo dosare la partitura musicale mantenendo sempre viva la tensione necessaria alla continuità narrativa dell’intera opera. In tutti questi anni di collaborazione non ha mai mancato di emozionarmi con le sue composizioni e anche questa volta è stata straordinaria.

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Francesca: Nella sinossi dell’opera, parli di una società aberrata e attraversata da cortocircuiti nella quale i simboli del potere sono cambiati e gli status alterati. In questo immaginario distopico, che emerge evidente dalle immagini del tuo video, che ruolo senti di poter esercitare come artista? Quale responsabilità senti di avere? 

Marcantonio: Noi artisti siamo dei narratori di storie. Dei girovaghi che vanno per musei con le loro opere esattamente come facevano Gaetano Grasso o Paolo Garofalo come cantastorie nelle piazze e nei paesi della Sicilia. Le opere che costruiamo vengono dal profondo di noi stessi e sono una risposta agli stimoli che la società in cui viviamo ci propone ogni giorno. Siamo osservatori critici della realtà, forse siamo anche dei documentaristi delle emozioni con la continua urgenza di mettere in scena il futuro che immaginiamo. O forse, per dire meglio, con l’urgenza di esprimere il sentimento di fondo del periodo che ci è dato di vivere, quasi fosse il suono continuo di un bordone che da il tono alle varie epoche. Come molti io sento quel suono di fondo che provoca in me inquietudine e avverto il bisogno impellente di condividerlo. Direi che mi sento come un apparecchio acustico con la funzione di far sentire anche ad altri ciò che io avverto chiaramente. Ma si tratta di uno stato emotivo che passa attraverso una mediazione razionale e poi viene trasformato in immagini e linguaggio. Come ogni professionista ho la responsabilità di svolgere bene il mio lavoro cioè di raccontare quel suono continuo che avverto sotto le fondamenta della società in cui mi trovo a vivere, ivi comprese le aberrazioni e le incongruenze di un mondo costantemente in movimento dove la nostra vita scorre apparentemente senza controllo e senza direzione.

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Marcantonio Lunardi, Pietas

Direttore della fotografia: Ilaria Sabbatini

Musica: Tania Giannouli

Voce: Claudio Milano

Costumi: Aurora De Servi

Attori: Claudio Maggenti, Cristina Cironas, Giulia Paltrinieri Micheli, Marianna Perilli, Francesca Interlenghi, Francesca Lolli

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