PIETRO ARNOLDI, LA SEDUZIONE IN FORMA DI LEGNO

Il filo delle memorie autobiografiche, il radicamento a una brusca elementare realtà fatta di luoghi, dettagli, gesti, sentimenti provati una volta e per sempre. I tempi lunghi della natura e del paesaggio custodiscono il respiro di un uomo che lì vi affonda le radici. Nella comunione con la natura, con il fluire incessante e nascosto della vita e di una infinita, intrepida, solitudine.

“Vengo da Taleggio, una piccola valle dove negli anni ’60, rispetto a città come Milano, si viveva una vita molto più semplice, rurale, che ha lasciato un’ impronta emotiva indelebile che mi trascino ancor oggi. Il ricordo degli attrezzi di un padre falegname, delle cose, quei momenti e quei profumi sono parte integrante di me e li porto dentro tutt’ora.”

Pietro Arnoldi inizia con il disegno, “fin da piccolo ero bravissimo a disegnare” dice, poi passa alla pittura, quadri con la colatura di colore che diventano paesaggi, mari e cieli. A Bergamo presso lo studio Rovello, dove era l’assistente di Funi, impara a disegnare con metodo e contemporaneamente si avvicina alla scultura “perché lo stesso Rovello scolpiva” ricorda. A 24 anni si trasferisce a Milano ospite di amici falegnami, riprende tra le mani gli attrezzi del padre e decide di dedicarsi anima e corpo alla scultura. Sono anni di studio e ricerca, a inseguire la propria identità, a domare la potenza della motosega per restituire forme di donna ricavate da tronchi d’albero, famigliari compagni di vita e di cammino, forgiati da una mano sapiente che sbalza via l’inutile, il superfluo. Emergono i corpi, i connotati, i volti, le storie: prodigio di passione, entusiasmo, felicità e tormento insieme. Nella donna l’evidenza del quotidiano, il meraviglioso che si impone con assoluta semplicità. Nella materia legnosa la carne, il cuore, l’anima dell’artista.

“Fin da giovane, anche nella pittura, finivo ogni volta col fare il ritratto a qualcuno. Perché da sempre prediligo il rapporto con l’essere umano e sono attratto dalla figura femminile in particolare, dalle sue forme armoniche e invitanti che bene si prestano a esprimere l’emotività, la sensualità, la dolcezza. La donna è terra, è madre, è generativa ed è stato naturale per me sceglierla come protagonista delle mie opere.”

Come trasformare un tronco spoglio nella meraviglia dei tuoi occhi di statua? Nella cadenza del respiro che di notte si posa sulla mia guancia? Come esprimere la malinconia ma anche un senso forte del vivere dando forma a queste muse nomadi dell’anima? Fin dove si può arrivare con la motosega? Si tratta in fondo di rispondere a queste domande.

“Ho provato a spingere il limite il più in là possibile facendo i ritratti con la motosega, uno strumento in apparenza così poco consono alla pratica artistica. Però, ho pensato, se riesco a fare questo allora posso fare qualsiasi cosa. Mi è stato molto d’aiuto il maestro Rovello quando mi ha detto: o lo sai fare o non lo sai fare, non è una cosa che si può imparare. Per trovare la mia strada ho impiegato almeno 2 anni, avrò buttato via migliaia di lavori, anche oggi butterei via tutto, sai, per poter ricominciare. Perché è nel distruggere, nel distruggerti, che puoi trovare delle cose nuove. Acquisire la consapevolezza della tecnica anche nell’uso della motosega e poi spingermi al limite, questo il fine ultimo della mia ricerca.”

La voce di un artista schietto, autentico, ingenuo per certi versi, mi racconta, e gli occhi si illuminano, di aver stretto negli anni una salda amicizia con il grande fotografo colombiano Leo Matiz la cui luce ha catturato il suo cuore di scultore-poeta nelle tante e tante immagini raccolte nel libro “Crateri di mani” insieme ai versi lirici di Enzo Samaritani.

I loro dialoghi scolpiti nella memoria del legno e in quella della strada che attraversa la Terra.

“Oh Leo caro quello che fai tu non lo farà più nessuno.”

“ Certo, anche la tua motosierra non avrà mani che la potranno guidare come le tue…” 

Ci guardiamo negli occhi quasi lucidi e ci abbracciamo, sento la comunanza, la complicità, il gioco. Quando, come riprendendomi, lascio l’abbraccio, mi ritrovo col libro in mano, solo davanti alla tavola imbandita per due, il piatto e il bicchiere vuoto. Sul tovagliolo scritto con calligrafia conosciuta: A Pietro gran escultor de sierras tomar.

Desidero ringraziare per la cortese intervista Pietro Arnoldi, www.pietroarnoldi.com  – Facebook.

 

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