CLODOVEO C. PETROSINO. PORTRAITS

Nato nel sud Italia nel 1987, Clodoveo C. Petrosino è un fotografo e artista noto a livello internazionale. La sua ricerca esplora il tema dell’identità di genere e il modo in cui le norme sociali, la politica, le credenze comuni, i pregiudizi, l’odio e l’amore influenzano la percezione di noi stessi e le nostre relazioni con gli altri. Ha lavorato con attori, musicisti e talenti italiani emergenti e dal 2018 documenta la comunità LGBTQIA+ attraverso il progetto The Queer Talks, da lui fondato. 

Pas des deux © Clodoveo C. Petrosino

Partiamo dallinizio. Da dove arrivi? Dacci qualche coordinata spazio-temporale.

Sono cresciuto in provincia di Salerno. Ho frequentato il Liceo Scientifico e, per tutti, il mio futuro sembrava già scritto: medicina. Amavo anatomia e biologia, sono sempre stato molto curioso e assetato di sapere. Non solo la cultura visiva ma anche il cinema, la musica, la letteratura, mi hanno sempre affascinato. Mi sono reso conto abbastanza presto che, dal punto di vista umano, non avrei retto il distacco emotivo che la professione medica richiede per sopravvivere. Io sono una persona troppo sensibile. Sentivo invece un’attrazione fortissima per tutto ciò che era artistico, umanistico, creativo. Avevo, e ho tuttora, un bisogno profondo di restare in contatto con il mio mondo interiore.

© Clodoveo C. Petrosino

Quando entra la fotografia nella tua vita?

In realtà molto presto, grazie a mio nonno che  era geometra di professione e utilizzava la fotografia per documentare i lavori nei cantieri. Ma era evidente che non fosse solo lavoro: fotografava i parenti, faceva ritratti a me e a mio fratello. Tutti gli album di famiglia sono pieni di scatti realizzati da lui. Quando ero piccolo mi lasciava finire i rullini e mi spiegava ogni accorgimento tecnico. I suoi strumenti erano macchine analogiche, una Polaroid 600 Color, per esempio, che ho ereditato. E quando andava a sviluppare le foto, sviluppava anche le mie. Avevo cinque o sei anni quando ho iniziato e da lì non ho mai smesso di tenere in mano una macchina fotografica.

C’è un oggetto che ti lega particolarmente a lui?

Sì, una lampada vintage con vetro verde e base in marmo, pesantissima. Me l’aveva regalata da adolescente. Non funzionava più da anni e l’ho portata con me in tutti i traslochi: da Salerno a Roma e poi a Milano. Dopo la sua morte – io ero in Francia e non ho potuto nemmeno andare al suo funerale per via del Covid – un giorno, appena cambiato casa, l’ho riattaccata alla presa e miracolosamente ha ricominciato a funzionare. È stato uno di quei momenti che non so spiegare, ma anche una rivelazione che ho voluto leggere come un segno del destino.

Ritratto nonno, 2010 © Clodoveo C. Petrosino

Quando finisci il Liceo arriva il momento di scegliere quale facoltà frequentare. Cosa succede in quel momento?

Un dramma enorme. Sentirsi dire: “Non voglio frequentare medicina” è stato uno shock per la mia famiglia. Mio padre sperava che realizzassi il suo sogno mancato di diventare ingegnere e probabilmente anche mio nonno. Si è parlato di architettura e di avvocatura, data la mia inclinazione alla giustizia, ma sentivo che niente mi apparteneva davvero. Alla fine ho scelto il corso di laurea triennale in Arti dello Spettacolo presso l’Università La Sapienza di Roma. È stato vissuto dai miei genitori come un lutto, ma io ero felicissimo.

Che tipo di formazione hai avuto alluniversità?

Molto teorica, ma ho cercato subito una via sperimentale interessandomi allo studio dei nuovi media negli anni in cui, tra il 2008 e il 2010, il dibattito culturale era molto acceso in Italia. Mi sono concentrato sui temi del corpo, del movimento, la performance e sul rapporto tra digitale e corpo attoriale. Per la tesi ho seguito un progetto teatrale a Torino e lì è successo qualcosa di decisivo: il docente Antonio Pizzo mi ha chiesto di occuparmi anche delle fotografie di scena dello spettacolo “Dato che hai sempre la macchina fotografica in mano” mi disse. Quelle immagini sono state utilizzate in occasione di un Festival organizzato da Offcine Sintetiche e da lì ho capito che la fotografia non era più solo una passione.

© Clodoveo C. Petrosino

Dopo la laurea triennale scegli di proseguire gli studi, seguendo una formazione più pratica.

Esattamente. Nel 2009 mi iscrivo al master in fotografia presso l’ISFCI per approfondire lo studio dell’analogica, lo sviluppo in bianco e nero e la camera oscura. Poi, nel 2011, sono passato alla Scuola Romana di Fotografia per imparare il digitale, il fotoritocco e nozioni di fotografia pubblicitaria. Sostenevo tutte le spese da solo, la sera lavoravo in una gelateria e di giorno studiavo. È stato un periodo intenso e difficile in cui credo d aver rischiato di ammalarmi, tanta era la stanchezza. A un certo punto il medico mi disse semplicemente: “Devi dormire”. E aveva ragione.

Che tipo di fotografia ti interessava davvero?

Non quella di moda, almeno all’inizio. Non la capivo. Mi affascinava invece il ritratto, l’intimità, la storia. Anche il reportage, ma non quello voyeuristico o basato sulla sofferenza. Diciamo che né Salgado né Pellegrin, pur essendo straordinari mastri ovviamente, sono mai stati nelle mie corde. Ho avuto un docente che mi ha insegnato che si possono raccontare storie senza sfruttare il dolore altrui, lo stesso che ha sposato in pieno il mio primo progetto importante. Una ricognizione condotta sui cinema porno di Roma. Il risultato è stato una serie di immagini che cristallizzavano luoghi senza persone. Un paradosso, ma anche una rivelazione.

Poi arriva una crisi profonda.

Dopo una serie di delusioni lavorative e problemi di salute, ho venduto tutta l’attrezzatura digitale. Sono rimasto, per anni, solo con la macchina analogica. Ma la fotografia non è mai sparita dal mio orizzonte, anzi, è sempre stata l’unica costante della mia vita. Preso da nuovo estro creativo, tra il 2014 e il 2015 ho iniziato a lavorare sui corpi, sui nudi, realizzando collage che mettevano insieme la figura umana con gli elementi della natura. Un lavoro che scavava nella mia interiorità e che Alessia Glaviano, Head of Global PhotoVogue, ha notato e iniziato a promuovere nella piattaforma digitale. Quello è stato il mio biglietto di ingresso, quasi involontario direi, per il mondo della moda.

Magliano Portraits, SS24 © Clodoveo C. Petrosino

Parlare di moda significa però parlare di Milano. Quando arrivi nel capoluogo meneghino?

Mi stabilisco definitivamente nel 2019, complice il fatto che a Roma non riuscivo a trovare casa e molti amici se ne stavano andando dalla capitale, soprattutto per motivi di lavoro. Milano è stata una scelta pratica, ma anche inevitabile che mi ha aperto le porte a tutte una serie di connessioni e possibilità: il lavoro per i magazine, i brand e gli editoriali, le fashion week, i riconoscimenti, i premi, la documentazione fotografica del Pride nel 2019, pubblicata su Vogue Italia in una photo gallery dedicata alla parata e diventata virale. Poi, durante il Covid, uno dei miei progetti più convincenti: un editoriale di moda con persone reali alla stazione centrale di Milano completamente deserta. Era una comunità che si mostrava, nonostante tutto, simbolo di resilienza e speranza in un momento tanto difficile. Da lì sono arrivati nuovi incarichi e una sorta di vitalità delle cose che facevo. 

Youth Friendship © Clodoveo C. Petrosino

Fino allimprevisto più inatteso, ma anche più bello, quello dei Måneskin!

Da fan sfegatato puoi immaginare come mi sia sentito quando, alle due di notte, mi è arrivato un messaggio su WhatsApp di una sconosciuta che, annunciandosi come editor del prestigioso magazine Billboard USA, mi diceva che ero stato scelto per realizzare il servizio fotografico dei Måneskin, reduci dalla vittoria all’Eurovision. C’ho messo un po’ a realizzare che non si trattava di uno scherzo e credo sia stata una delle esperienze più formative della mia carriera. Pochissimo tempo a disposizione, nessuna possibilità di fare sopralluoghi in anticipo, sentivo addosso una pressione enorme. Ma è stato incredibile. Quelle foto hanno fatto il giro del mondo e mi hanno spalancato molte porte.

Måneskin © Clodoveo C. Petrosino

Cosa ti attrae davvero del ritratto?

L’incontro, quel momento magico di vicinanza che si crea con il soggetto da ritrarre. Io ho bisogno di parlare con le persone, di metterle a loro agio. La fotografia per me è una lente per guardare meglio il mondo, è conoscenza dell’altro, è un modo per abbattere le barriere. Ma è anche uno strumento per analizzare tematiche sociali, scardinando stereotipi e convenzioni. L’indagine che conduco da anni sulla comunità LGBTQIA+, attraverso la piattaforma The Queer Talks che ho fondato, si sviluppa secondo un’etica precisa: le persone devono avere controllo totale sulla propria storia. Dopo esperienze di narrazioni manipolate, ho deciso che nulla viene pubblicato senza consenso totale. Il progetto è stato esposto all’estero, dove è stato molto apprezzato e ha ottenuto diversi riconoscimenti. In Italia, invece, mi accorgo che la tematica è ancora molto strumentalizzata. Accade anche nei miei confronti. Se mi chiedi un’intervista devi essere interessato alla mia poetica e non alla mia sfera privata. Rifiuto questo tipo di narrazione, quello che mi interessa è sempre e solo l’autenticità. 

The Queer Talks, Olimpia © Clodoveo C. Petrosino

C’è ancora spazio per la moda nelle tue fotografie? Che ruolo ha oggi per te?

È uno strumento, non il fine. Se mi permette di raccontare storie, bene. Se mi chiede di rinunciare ai miei valori, no. Non riesco a disumanizzare le persone. Credo che la crisi della moda venga proprio da questo, da un disinteresse, malamente celato, per tutto ciò che è umano. La gente oggi cerca altro.

Se dovessi riassumere il tuo lavoro in poche righe?

Raccontare storie, con rispetto. Senza scendere a patti con ciò che sono. Con le immagini ma anche con le parole, perché ho sempre avuto una grande fascinazione per la scrittura. Il mio blog è proprio questo: un archivio inedito, un contenitore segreto fatto di immagini, parole, emozioni, storie e pensieri.

© Clodoveo C. Petrosino

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