JIMMY SPACEMAN, photography as a form of knowledge

Fotografo documentarista proveniente dal Regno Unito, Jimmy Spaceman (Jimmy Mcbroom) ha concentrato il suo lavoro nel territorio della Cisgiordania, cogliendo con immagini potenti i palestinesi che attraversano i checkpoint israeliani, e nelle baraccopoli di Dhavari, in India, dove ha scattato scene di vita quotidiana. Le sue fotografie sono state utilizzate per la commedia teatrale a sfondo politico dal titolo “La mia Gerusalemme” di Avital Raz, per la campagna di solidarietà di Sheffield Palestine e il suo lavoro è stato recentemente presentato nella pagina Instragram di Broad Magazine. Jimmy è uno street photographer che raccoglie nei suoi scatti frammenti della vita di ogni giorno con l’obiettivo di stimolare cambiamenti sociali attraverso la fotografia: una voce coraggiosa e onesta che si aggiunge al mondo del fotogiornalismo. A breve l’uscita del suo ultimo libro fotografico “Slum”.

Jimmy Spaceman (Jimmy Mcbroom) is a social documentary photographer from the UK. His projects have included capturing powerful images of Palestinians crossing Israeli Checkpoints in the Westbank and documenting life in Mumbai’s Dhavari Slum India. His images have been used in the political Theatre play ”My Jerusalem” by Avital Raz, for the Sheffield Palestine Solidarity campaign and he has recently been featured on Broad Magazines Instagram page weekly special. A daily street photographer documenting life and trying to make social change via Photography, Jimmy Spaceman is a brave and honest addition to the world of photojournalism. His photobook “Slum” is soon to be released.

1. Jimmy Spaceman

Francesca Interlenghi: Cominciamo dal principio, come sei arrivato alla fotografia?

Jimmy Spaceman: Inizialmente mi sono appassionato alla fotografia scattando foto a gruppi di amici che animavano la scena musicale di Sheffield. Essendo anch’io un musicista, ho iniziato a documentare i loro spettacoli per aiutarli. Da questo è presto nata la passione per la fotografia di strada che ritengo essere stata una sorta di palestra per la mia attività di reportage e per  il fotogiornalismo.

Francesca Interlenghi: I’d like to start at the beginning. How did you come to photography?

Jimmy Spaceman: I originally got into photography by taking photos of friends’ bands in the local music scene in Sheffield. Being a musician myself I kind of fell into documenting local bands and performances to help them out. This soon led to a passion for street photography which I feel is my training ground for social documentary photography and photojournalism.

Francesca: È piuttosto evidente la tua forte propensione a documentare la realtà. Il tuo lavoro riguarda principalmente documentari sociali, fotogiornalismo, fotografia di strada e di viaggi. Me ne puoi parlarne?

Jimmy: Sono molto interessato alla fotografia come modo per indurre un cambiamento sociale. Sono ispirato da fotografi che hanno raggiunto questo obiettivo come Lewis Hine, che ha documentato i lavoratori minorenni in America e ha permesso al mondo di vedere immagini che hanno contribuito a fermarne lo sfruttamento. Le fotografie possono essere molto efficaci per conoscere una determinata questione. Kevin Carter, Gregory Sebastian Marinovich e The Bang-Bang Club, Don McCullin, Diane Arbus e Steve Mccurry sono alcune delle mie altre fonti di ispirazione perché la loro fotografia ha contribuito a quel cambiamento sociale di cui dicevo. Io sento di voler documentare la vita così come la vediamo, onestamente, con le verruche e tutto il resto! I momenti belli e quelli brutti soprattutto nel contesto attuale in cui i media del mondo sono corrotti e propensi a racconti non veritieri.

Nel 2017 ho visitato la Cisgiordania con un’organizzazione di sinistra di donne israeliane (Machsom Watch) che monitorano il comportamento dei soldati nei confronti dei palestinesi, in particolare nei punti di controllo e ai valichi di frontiera. Molte cose mi hanno colpito, cose che non mi aspettavo, come per esempio la giovane età dei soldati israeliani. Alcuni, appena diciottenni, assolvono il servizio militare con in mano le armi e sotto un solo accecante. Mi aspettavo che i soldati israeliani fossero cattivi ma alcuni sembravano praticamente dei bambini. In un’altra occasione, mentre ero a Gerusalemme, ho notato l’insegna di un negozio di dolci con scritto che bisognava avere esperienza nell’esercito per lavorare lì e allora ho realizzato quanto effettivamente sia centrale il ruolo dei soldati anche nella vita civile. Credo che per innescare veri e propri cambiamenti in quei territori dobbiamo essere in grado di vedere l’umanità e la sua vulnerabilità. Idealmente, vorrei che la mia fotografia suscitasse un dibattito e invitasse alla comprensione.

La mia fidanzata, Avital Raz, oltre a essere una musicista è anche una performer israeliana che porta in scena un teatro politico e il suo lavoro apre a discussioni molto complesse. Le cose non sono sempre così, bianche o nere, come sembrano la prima volta che le vediamo. Per questo è necessario stimolare delle riflessioni. Siamo tutti esseri umani che fluttuano su una grande superficie rocciosa nello spazio… Mi piace poi tira fuori l’umorismo e le cose belle dalle situazioni squallide e difficili o generare imbarazzo in contesti inaspettati : la vera bellezza della vita.

2. Jimmy Spaceman

Francesca: It’s quite evident that you have a keen interest in documenting reality. Your work mainly covers social documentary, photojournalism, street and travel photography. Can you talk about that?

Jimmy: I’m very interested in photography as a way of making social change. I’m inspired by photographers which have achieved this such as Lewis Hine, who documented child laborers  in America and allowed the world to see images which helped stop the exploitation. Images can have much more impact than just hearing about a topic. Kevin Carter, Gregory Sebastian and the Bang-Bang Club, Don McCullin, Diane Arbus, and Steve Mccurry to name some of my other inspirations who’s photography has contributed towards social change. I feel that documenting life around us as we see it, honestly, warts and all! The good times and the bad is essential, especially at the moment as the world’s media is so agenda driven, corrupt and full of lies.

In 2017 I visited the Westbank (Israel /Palestine) with a left wing organisation of Israeli women (Machsom Watch) who monitor the behaviour of soldiers towards Palestinians namely at check points and border crossings. Many things struck me which I didn’t expect, one being how young the Israeli soldiers were. Some as young as 18 years old doing national service, holding weapons with the glaring sun in their faces. I expected the Israeli soldiers to be evil bad guys but some looked practically like children. While in Jerusalem, I noticed a wanted sign in a waffle shop stating you must have army experience to work there and realised what a central place the military had in civilian life. I believe that for real change to happen in the region we need to be able to see each other’s all too vulnerable humanity. Ideally I want my photography to spark debate and invite understanding.

My fiancée Avital Raz, is an Israeli political theatre performer and musician who’s work  inspires complex debate. Things are not always as black and white as they first seem and thought provoking conversation is encouraged. We are all humans floating around on a large rock in space… I love searching for humour and beautiful things within squalor and challenging situations. I also love searching for awkwardness within supposed pleasant situations: the real beauty of life.

10. Jimmy Spaceman

Francesca: Perché l’India, in particolare la città di Mumbai, attira così tanto la tua attenzione? Cosa ti affascina di quei luoghi?

Jimmy: Inizialmente ero attratto dai bassifondi di Dhavari, a Mumbai, una delle aree più densamente popolate del mondo. Suppongo che mi attraesse vedere in prima persona come si svolgeva la vita nei bassifondi. Ho trascorso circa tre mesi a Mumbai esplorando Dharavi, incontrando gente del posto e vedendo come si svolgeva il lavoro dall’interno. Ho incontrato alcune delle persone più straordinarie e intraprendenti lì. Ho assistito a indù e musulmani che vivevano felicemente fianco a fianco in una delle aree più povere e sovrappopolate del pianeta. Ci sono molte idee fuorvianti riguardo Dharavi. I media ritraggono i suoi abitanti come usciti da certi film quali “Slumdog milionarie” (film drammatico inglese del 2008 libero adattamento del romanzo Q & A (2005) dell’autore indiano Vikas Swarup ndr) o da certi video dei Coldplay. Ma questo non è quello che ho vissuto io! Io ho visto intraprendenza e profondo spirito di comunità, seppur nella limitatezza delle risorse. Ero sopraffatto dal loro senso di ingegnosità e orgoglio.  Nonostante le persone debbano affrontare questioni come avere l’acqua corrente per una sola ora al giorno o debbano convivere con la mancanza di un sistema fognario o ancora si trovino ad affrontare ostacoli pericolosi come cavi elettrici in tensione disseminati in ogni angolo di quei labirinti stretti, Dharavi è un luogo caldo, magico e accogliente in cui stare. Forse un esempio di vera anarchia? Questa esperienza mi ha costretto a mettere in discussione la mia vita nel Regno Unito. Mi sono chiesto cosa avesse perso o dimenticato il “mondo occidentale” e cosa potesse imparare da Dharavi. Sulla scorta di questi interrogativi  sta per vedere la luce il mio nuovo progetto di libro fotografico “Slum”.

In generale, trovo che l’India sia un posto bellissimo e meraviglioso. Le persone sono così tanto accoglienti e, parlando di fotografia, c’è sempre qualcosa di eccitante che accade in ogni angolo di strada. È un luogo così pieno di colori che è impossibile sbagliare, a meno che non si dimentichi la macchina fotografica. Ho avuto la fortuna di partecipare al Kumbh Mela (grande pellegrinaggio e festival induista ndr) dove milioni di pellegrini e sadhu si radunano a Prayagraj. Probabilmente la settimana più bella della mia vita.

In Inghilterra la gente spesso mi prende a pugni, cerca di rubarmi la macchina fotografica, diventa paranoica e non vuole essere fotografata. In India, invece, le persone si immergono letteralmente dentro l’obiettivo, mi invitano a casa loro per magiare e bere e insistono perché io faccia delle foto alle loro famiglie e ai loro bambini. Una così grande differenza, tant’è che mi sono ritrovato a scattare migliaia di ritratti di persone che incontravo mentre girovagavo, volti così belli.

6. Jimmy Spaceman

Francesca: Why does India, especially the city of Mumbai, capture your attention so much? What fascinates you about those places?

Jimmy: I was initially attracted to Dhavari Slum in Mumbai. Being one of the most densely populated areas in the world. I suppose I was attracted to seeing first- hand what life would be like within the slum. I spent around three months in Mumbai exploring Dharavi, meeting locals and learning about the industries within. I met some of the most remarkable and resourceful people there. I witnessed happy Hindus and Muslims living side by side in one of the poorest and most overpopulated areas of the world.There are a lot of misconceptions about Dharavi. The media portrays Dharavi residents as down and outs in films such as “Slumdog millionaire” and crappy Coldplay music videos. This is not what I experienced! I witnessed resourcefulness and profound community spirit with limited resources. I was overwhelmed with the sense of  ingenuity and pride of the inhabitants. Coping with issues such as only having running water for one hour per day, a lack of any sewer system, hazardous obstacles such as live electric cables around nearly every corner of the narrow mazes, I found Dharavi a warm, magical and welcoming place to be. Maybe an example of true Anarchy? The experience still has me constantly questioning my life in the UK. I wonder what  the “Western world” has lost or forgotten and what could it learn from Dharavi? The subject of my up and coming photo book “Slum”.

In general I find India to be an amazing beautiful place. The people are so welcoming and for photography there is something exciting happening every second on every street. It is also so colourful. You can’t go wrong unless you forget your camera. I was lucky enough to experience the Kumbh Mela where millions of pilgrims and sadhus gather in Prayagraj. Probably the best week of my life.

In England people often raise a fist at me, want to steal my camera, get paranoid or don’t want their photo taken. In India on the other hand people literally dive in front of the camera, invite me into their homes for chai and food and insist I take photos of their families and children. Such a difference. I found myself taking thousands of portraits of people I was meeting whilst wandering around. Such beautiful faces.

5. Jimmy Spaceman

Francesca: Robert Capa una volta disse: “Le immagini sono lì, basta catturarle”. Sei d’accordo con lui? La fotografia di strada è qualcosa che accade in maniera naturale?

Jimmy: Mi piace passeggiare ogni giorno per strada e andare in cerca di foto. Sono sempre stupito da quello che posso trovare. Anche camminando per le stesse strade note. Prospettive infinite, ma ogni fotografo alla fine sviluppa il proprio stile. Controllo sempre quello che succede dietro di me mentre cammino guardando avanti perché non voglio perdere nulla (specialmente in India). E penso che la personalità del fotografo emerga nelle foto attraverso i soggetti ritratti, attraverso le loro reazioni, da quanto o quanto poco sono a loro agio con chi li fotografa.

Mi piace molto il lavoro di Vivian Maier, penso che la sua presenza non minacciosa l’abbia aiutata a realizzare i suoi scatti. A differenza di lei, però, che era molto discreta al punto che i suoi soggetti spesso non sapevano di essere fotografati, io utilizzo l’umorismo e sorrido sempre per far sentire gli altri al sicuro e questo di solito fa uscire il loro lato infantile, quello che mai ti aspetteresti di vedere.

7. Jimmy Spaceman

Francesca: Robert Capa once said: “The pictures are there and you just take them”. Do you agree with him? Is street photography something that just happens?

Jimmy: I love going out on daily walks to do street photography. I’m always amazed at what I can find. Even walking the same streets locally. Endless perspectives but each photographer develops their own style eventually. I always check behind me whilst walking forwards as I don’t want to miss anything (Especially in India). With people, I think the photographer’s personality comes out in the photos through the subjects, people’s reactions and whether they are comfortable in the space with you.

I really like Vivian Maier’s work, I think her non-threatening presence helped her get some of those shots. Unlike her though, that was very discreet and her subjects often didn’t know they were being photographed, I often use humour and always smile to make people feel safe and it usually brings out the childish side of all sorts of people which you wouldn’t expect.

Francesca: Questo mi suggerisce un’altra domanda e cioè, come funziona il tuo processo creativo? In che modo le tue immagini si spostano e si adattano ai diversi ambiti culturali? 

Jimmy: Personalmente mi piace interagire con i soggetti che fotografo. A volte è un po’ complicato per via delle barriere linguistiche, ma nel mio lavoro insisto sul fatto che tutti si sentano a proprio agio. Mostro sempre loro le immagini e spesso noto i loro sorrisi quando si vedono. Sono stato in molte aree colpite dalla povertà e sono stato spesso criticato da amici in Occidente perché potrebbe sembrare che sfrutto i poveri, ma io tratto tutti con lo stesso rispetto. Nella mia esperienza ho scoperto che spesso più le persone sono povere e più sono felici di essere notate, ascoltate, raccontate e condivise. È una questione morale sulla quale ho riflettuto a lungo.

A Mumbai ho fatto il ritratto di un senzatetto, gli ho comprato il pranzo, gli ho dato dei soldi e sono stato con lui per qualche ora. Non ci vedo nulla di sbagliato. Nascondere questi problemi sociali è esattamente ciò che alcune persone vogliono perché così è più facile vivere le loro vite privilegiate senza essere costretti a vedere come vive l’altra parte del mondo.

A volte qualcuno scuote la testa perché non vuole farsi fotografare e io rispetto sempre il  divieto, anche se si tratta di una piccola percentuale. Ci sono stati un paio di incidenti inquietanti. Per esempio, ho visto una famiglia estremamente povera sul ciglio di una strada cucinare i corvi sul marciapiede per sopravvivere. Mi hanno salutato e ho mostrato loro la mia macchina fotografica con il proposito di scattargli una foto. Erano così disperati che ho immediatamente tirato fuori un po’ di soldi dalla tasca e gliel’ho dati. Le uniche parole in inglese della ragazza sono state:<<Per favore, scopami signore 200 rupie.>> Mentre cercavo di comunicare ancora con loro, una guardia della vicina stazione ferroviaria, sconosciuta a tutti noi, si è avvicinata e ha iniziato a colpirli con un bastone. Ho cercato di fermarla per spiegargli che non mi stavano davano fastidio e che stavamo solo parlando. Mi sentivo malissimo per quella situazione ed ero arrabbiato con la guardia che pensava di aiutarmi dicendomi: <<Non parlare con quelle persone.>> Ovviamente questo episodio ha suscitato in me molti interrogativi legati al tema dei privilegi poiché era una situazione della quale mi sentivo responsabile. Ma probabilmente sarebbe successo lo stesso, indipendentemente dal fatto che avessi avuto o meno la mia macchina fotografica.

Più tardi, quello stesso giorno, ho scoperto una donna morta che aveva ancora la mano protesa nel gesto di chiedere la carità. La gente camminava indifferente mentre andava al lavoro ed era come se la sua mano stesse ancora chiedendo aiuto. Alla fine un uomo del posto l’ha coperta, ha chiamato le autorità e ha recitato una preghiera. Ho avuto il privilegio di testimoniare la fine della vita di questa persona sulla Terra.

4. Jimmy Spaceman

Francesca: That lead us to the question: how is your process of working? How do your images move between and adjust to a different cultural flow? 

Jimmy: Personally I like to engage with my subjects. Sometimes it’s a bit tricky with language barriers, but with my work I insist that everyone feels comfortable. I always show my subjects their images on my view finder and often buzz off their smiles when they see themselves. I have been to a lot of poverty stricken areas. I have often been criticized  by friends in the west suggesting I may be exploiting poor people but I treat everyone with the same respect. In my experience I’ve found that often the poorer the subjects, the more happy they are to be actually noticed, listened to and have their story told and shared. It is a moral question I have pondered at great lengths.

In Mumbai I took a portrait of a homeless man, bought him lunch, gave him some money and hung out with him for a few hours. I don’t see anything wrong with that. Brushing these social issues under the carpet is what some people want. It’s easier for them to live their privileged lives without seeing how the other half live.

Sometimes people shake their heads and don’t want their photo taken, I always respect this. This is usually a small percentage of people. There have been a couple of disturbing incidents. For example I saw an extremely poor family on a roadside in Mumbai cooking crows on the pavement to survive. They waved me over and I showed them my camera hinting for a photo. I took a photo on the way over towards them as they were nodding their heads. They were so desperate I immediately pulled some money out of my pocket and gave it to them. The young girl’s only English was: <<Please fuck me sir 200 rupees.>> As I was trying to communicate with them some more, unknown to all of us a guard from the nearby train station ran over and started hitting them with a stick. I tried to stop him and explain that they were not bothering me and that I was just talking to them. They had to run off. I felt terrible about that situation and was angry at the guard, who thought he was helping me saying: <<Don’t talk to those people.>> It obviously raised a lot of privilege issues as it was a situation I felt responsible for. But it probably would have happened regardless if I had my camera on me or not. The family were untouchables.

Later on that same day I discovered a dead woman who’s hand was still held out in the begging position. People were just walking past on the way to work. It was as if her hand was still asking for help. Eventually a local man covered her up, called the authorities and said a prayer. I felt privileged to bear witness to the end of this person’s life on Earth.

9. Jimmy Spaceman

Francesca: Infine Jimmy, cos’è la fotografia per te?

Jimmy: La fotografia è per me un modo per documentare la vita e catturare le emozioni. Mi sento coraggioso dietro l’obiettivo di una macchina fotografica e la fotografia mi sta facendo vivere delle incredibili avventure. Penso sia uno strumento potente che può generare dei cambiamenti nella società. Sto per completare il mio libro fotografico “Slum” e credo che sarà pronto verso la fine di quest’anno. Donerò parte del ricavato a una biblioteca di Dhavari che è gestita da volontari locali e fornisce libri per i bambini del posto: uno spazio sicuro per imparare e incoraggiare la loro creatività.

Francesca: What is photography for you?

Jimmy: Photography for me is documenting life and capturing emotion. I feel brave behind a camera and it has and is leading me to some amazing adventures. It is a powerful tool and has the ability to make social change. I am nearing completion of my Photobook “Slum”. I will be releasing it towards the end of this year. I will be donating parts of the profits towards a library within Dhavari which is run by local volunteers and supplies books for local children. It allows them a safe space to learn and encourage their creativity.

8. Jimmy Spaceman

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