PINO CALABRESE, UNA VITA DA ATTORE

Da quando, in maniera del tutto inattesa e casuale, ci siamo incontrati per contribuire al lavoro Un Nodo della video artista e registra Francesca Lolli, il nostro è sempre stato un po’ un rincorrersi, un tentativo, almeno il mio, di uscire dallo spicchio in cui stava racchiusa la mia voce per sentire più da vicino la sua. La sua storia, il racconto di un uomo che al mestiere di attore ha dedicato la vita intera.

Francesca Interlenghi: Eri un ragazzino quando hai iniziato e sono così tanti anni che reciti che non mi è possibile eludere la prima domanda, la più scontata lo so. Ricordi quando hai iniziato e in quale occasione? 

Pino Calabrese: L’esordio è avvenuto in una maniera veramente strana senza sapere cosa fosse né il teatro né il cinema. Avevo quattordici anni e mio cognato insieme a mia sorella, a Napoli con la loro associazione culturale, decisero di mettere in scena il dramma di Jean-Paul Sartre dal titolo Morti senza tomba. Serviva qualcuno che impersonasse il fratellino piccolo di una giovane partigiana e così toccò a me imparare in pochi giorni la parte. Per tutta risposta ebbi un successo clamoroso, con le signore in sala che piangevano quando venivo strangolato per evitare il pericolo che potessi spifferare qualcosa ai gendarmi.

Francesca: Mamma e papà non non avevano nulla a che fare con il teatro o il cinema? Non era un mondo a cui eri stato in qualche modo educato, vero?

Pino: No, assolutamente no, i miei genitori erano commercianti. Ma da quel momento qualcosa in me cominciò a brillare e mio padre se ne accorse tant’è che l’anno dopo mi comprò l’abbonamento per un teatro napoletano che io cominciai a frequentare. E’ stato lì che ho iniziato ad assistere agli spettacoli più svariati e a rimanere affascinato da personaggi come Gino Bramieri, Franca Valeri, piuttosto che Valeria Moriconi.

Francesca: Non usuale, almeno nel mio immaginario, che un ragazzino nel contesto di Napoli frequentasse e si appassionasse al teatro. Sbaglio?

Pino: Vero, ma evidentemente c’era il seme di qualcosa.

Francesca: Il seme di tutto quello che sei poi diventato, mi pare evidente. A questo proposito mi piacerebbe chiederti: attori si nasce o si diventa?

Pino: Questa è una bella domanda, difficile dire. Secondo me in parte si nasce e in parte si diventa. Credo che ci siano delle persone assolutamente dotate, che hanno un talento naturale, e a quelle devi spiegare ben poco. Altre invece le devi in qualche maniera instradare. Altre ancora sono assolutamente negate e allora purtroppo lì non si può fare molto. Credo che esista una sorta di linea di confine all’interno o all’esterno della quale uno è o non è attore ma può diventarlo. Bisogna che però si accenda negli occhi una luce particolare, quello che gli psicanalisti definiscono l’insight. E’ proprio grazie a quella luce che uno capisce che la recitazione fondamentalmente non è recitare. Non c’è cosa più brutta per un attore che uscire dal camerino e sentirsi dire “Bravo, hai recitato benissimo!” Bisognerebbe riuscire secondo me a trasportare la realtà all’interno del mezzo cinematografico o teatrale filtrandola secondo la propria sensibilità, la propria disponibilità e predisposizione. E questa non è una cosa facile. Però quando si accende quella luce e tu capisci da solo che non devi recitare, che non devi fare qualcosa in più o di diverso rispetto a quello che normalmente fai nella vita, ecco che allora possiamo parlare di attore. Oltre a questo è necessario ovviamente studiare e capire bene il ruolo, fare un lavoro di tipo osmotico con il personaggio che si deve interpretare. Che non significa necessariamente diventare altro da sé, non condivido molto il metodo Stanislavskij, sono anche un po’ contro quelli che devono fare i sassofonisti e allora stanno sei mesi con il sassofono a letto perché sentono il contatto viscerale con lo strumento. Credo sia necessario entrare nel ruolo con la propria sensibilità e per fare questo bisogna possedere tutta una serie di informazioni tecniche. La tecnica non può sfuggire: la dizione o la maniera di sviluppare un personaggio sono elementi che vanno studiati.

Francesca: Non è stata la fascinazione del momento quella per il teatro. Piuttosto, un amore duraturo che si è alimentato di incontri importanti. 

Pino: Massimo Troisi per cominciare, avrò avuto quindici o sedici anni. Frequentavamo la stessa scuola e insieme costruimmo, edificammo proprio, un piccolo teatro a San Giorgio a Cremano dove cominciammo con le farse di Pulcinella per i bambini la domenica mattina. E poi il cabaret che all’epoca – siamo agli inizi degli anni Settanta – era molto in voga a Napoli. A un certo punto io mi staccai da quel posto ma non mi staccai dalle amicizie che avevo coltivato: lo stesso Massimo Troisi, Lello Arena, Enzo De Caro con i quali formammo i Saraceni, l’embrione di quello che poi sarebbe diventato il Gruppo della Smorfia. Ma io avevo dentro di me il sacro fuoco dell’arte, del gran teatro come dire, quello di Albertazzi, Gassman, Carmelo Bene e di questo cabaret mi importava ben poco. Fu così che iniziai a frequentare delle cooperative napoletane che facevano un teatro di tradizione, riveduto e corretto secondo canoni più moderni e attuali. Finché arrivò una parte nel musical di Luigi De Filippo tratto da L’ Hotel del libero scambio di Feydeau. Un’occasione meravigliosa, anche perché avevo di fianco a me attori come Pietro De Vico, Tommaso Bianco o lo stesso Luigi De Filippo dai quali rubavo tutto il mestiere possibile e immaginabile.

Francesca: Da lì poi le prime cose al cinema e la televisione e poi tutto il resto, tutte le cose che hanno composto la tua ricchissima e poliedrica carriera.

Pino: Devo dire che sono stato molto fortunato soprattutto perché ho avuto la possibilità di scegliere  quali cose fare e quindi fare quelle di qualità. Al cinema per esempio non mi sono mai speso in “filmetti”. Due volte ho lavorato con Pupi Avati, altrettante con Giuseppe Tornatore e poi Roberto Faenza, Mario Martone, Pappi Corsicato… una lista lunga insomma. In televisione ho fatto di tutto e di più.

Francesca: Quale è la differenza tra teatro, televisione e cinema?

Pino: Le differenze sono moltissime. Due mestieri completamente diversi: il macellaio e il sarto per dirla usando una metafora. Innanzitutto, la parola mestiere per me è fondamentale. Io non lo chiamo mai il mio lavoro perché credo che l’attore sia qualcosa di artigianale che richiede l’impiego anche delle mani, delle braccia, dei piedi, della faccia, degli occhi, lo studio dei particolari. Il lavoro mi sa di una cosa un po’ più meccanica. In teatro l’attore ha bisogno di comunicare sia allo spettatore che sta in prima fila sia a quello che sta seduto all’ultima per cui i mezzi di espressione sono completamente diversi. A parte una voce di impostazione sul diaframma, i volumi, i gesti, tutto deve essere più ampio. Al cinema no, è completamente diverso, come centuplicato, per cui basta muovere di un battito le ciglia perché il movimento si noti. Bisogna quindi saper modulare la propria espressività a seconda del mezzo. Il cinema è soprattutto attesa, Mastroianni diceva: “Questo mestiere noi lo faremmo anche gratis ma ci dovrebbero pagare per le attese e per le offese che riceviamo.” Televisione e cinema invece non hanno grandissime differenze quanto al modo di recitare; la differenza più grande sta nei tempi nel senso che in televisione ora si corre, si corre molto velocemente, è tutto accelerato.

Francesca: L’ultimo progetto nel quale ti ho visto impegnato è il film Respiri, l’opera prima di Alfredo Fiorillo. Un thriller psicologico nel quale sei co-protagonista insieme ad Alessio Boni. 

Pino: Uscito a giugno del 2018 nelle sale, è un film che ha avuto molta fortuna nei festival. Abbiamo vinto un po’ di premi in giro per l’Europa ma, al di là dei premi vinti, è stato presentato a Tolosa piuttosto che a Los Angeles, e poi a Londra e Mosca. Un cinema di genere che è poco frequentato in Italia anche perché nel nostro Paese produttori e registi hanno poco coraggio a lanciare volti nuovi, cosa che invece si fa moltissimo in Francia e in Spagna e in Europa in generale. Si pensa erroneamente che solo lavorando con determinate facce la gente vada al cinema e questo invece non è vero perché poi quando un film funziona può essere recitato assolutamente da sconosciuti.

Francesca: Dopo Respiri a quali altre cose hai lavorato?

Pino: Un bel film del regista serbo Goran Paskaljevic dal titolo “Il mio nome è Mohammed” che è attualmente in fase di montaggio e probabilmente andrà a Cannes piuttosto che a Venezia. Una storia che tratta il tema dell’immigrazione e racconta di un bambino che viene adottato da una famiglia che da poco ne ha perso uno. E poi un altro lavoro con il regista napoletano Carlo Luglio dal titolo “Il ladro di cardellini”.

Francesca: Nel 2018 c’è stata la ricorrenza dei quarant’anni dall’eccidio di Via Fani e tu stai portando in giro un reading dal titolo “L’ombra di Aldo Moro” che narra, attraverso gli occhi di Oreste Leonardi, capo della scorta di Moro, tutto quello che è accaduto il 16 marzo 1978. Me ne parli?

Pino: Quel tragico giorno morirono cinque uomini della scorta di cui due carabinieri, tra cui Oreste Leonardi, e tre poliziotti. E’ stato un momento importante nella nostra storia. Tutto quello che è accaduto nella trasformazione cultura e sociale e politica dagli anni Sessanta, che ha investito non solo l’Italia ma l’Europa intera, si è trasformato nel nostro Paese con le Brigate Rosse in rivoluzione armata. Anni importanti che io ricordo attraverso questo reading scritto dall’autore romano Patrizio J. Macci e che fa parte di un progetto più ampio: in tutto quattro pezzi di teatro sociale e politico che porteremo in giro a partire dal prossimo autunno. Oltre a questo ci sono “Dunque dove eravamo rimasti”, la storia di Enzo Tortora, “Gli occhi di Margherita”, tutti gli anni delle Brigate Rosse attraverso gli occhi di Margherita, la compagna di Renato Curcio, e infine “Colpo alla nuca” che racconta tutti gli anni del terrorismo italiano.

Francesca: Un teatro impegnato, che prende posizione rispetto ai fatti della vita e della storia e che si innesta in maniera coerente nel percorso lungo della tua carriera di attore. 

Pino: Io sono un attore. Hai mai fatto caso a questa cosa? In Italia non si dice mai io sono un attore, si dice piuttosto io faccio l’attore. Invece si dice io sono un ingegnere o un medico o un architetto. Come se l’attore fosse un mestiere di serie B. Credo invece che mai come in questo momento sia necessario che quelli che si interessano di arte in generale si impegnino da un punto di vista politico e sociale. Ognuno di noi deve dire qualcosa, qualsiasi cosa, purché abbia un contenuto, una sostanza. Bisogna prendere posizione. In qualche maniera io ho basato un po’ tutta la mia carriera artistica secondo questi dettami: era importante dire qualcosa e sulla base di questa convinzione ho scelto le sceneggiature e i copioni teatrali.

Francesca: Se non fossi stato un attore che altro ti saresti immaginato per la tua vita?

Pino: Ero piccolino e volevo fare il venditore di palloncini convinto che, tenendoli stretti nella mia mano, un giorno i palloncini mi avrebbero portato su, verso il cielo, e avrei potuto guardare il mondo dall’alto. Mi ha sempre affascinato questa idea. E non so se son riuscito a fare la stessa cosa con questa professione, però mi illudo di averla potuta fare.

Desidero ringraziare pr la cortese intervista Pino Calabrese – web siteFacebookInstagram 

Foto di Sara Galimberti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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