ALBERTO ALIVERTI, L’ALTRA VERITA’

Al confine, in un territorio di arte e di vita, dove è necessario vedersi e sentirsi per far vedere e sentire, l’immagine si distacca dall’apparizione seriale e perfetta, dalle cristallizzazioni assolute cui siamo abituati, e diventa un documento di “verità” altra che dilata la complessità tra persona e fotografia. L’improvvisazione e il processo, l’indefinito e l’errore, un’estetica fatta di vaghezza e contorni incerti. E’ l’imperfetta bellezza del collodio, l’antico procedimento analogico di sviluppo fotografico su lastra, ampiamente utilizzato a partire dal 1850 e fino circa all’inizio del secolo scorso, qui ripreso dal fotografo Alberto Aliverti a favore di una sua personalissima e intima indagine artistica.

“Quando è iniziata la mia passione per la fotografia e ho intrapreso il mio percorso professionale, non conoscevo questa tecnica. Avevo iniziato da giovane, parliamo degli anni Ottanta, a realizzare degli scatti in grande formato, luce continua, con un bellissimo materiale che era il polaroid, inseguendo alcuni dei miei miti come Sarah Moon o Paolo Roversi, inseguendo un certo tipo di fotografia. Dopo è arrivato il digitale e abbiamo tutti incominciato a lavorare in altro modo, fino a quando non ho scoperto il collodio ed è stato un po’ come tornare agli inizi, a quel tipo di ricerca.”

Accadeva nel 2014, durante un viaggio negli Stati Uniti, grazie a un workshop intensissimo con un fotografo americano che quella tecnica utilizzava abitualmente. Un metodo che sottende un’aggiunta di significato, al di là e oltre i significati razionali e meccanici del fotografare, quasi il fotografo volesse riappropriarsi di quella intensità e di quella emozione che nasce dall’incontro con l’altro.

“Quello che veramente mi interessa è la relazione che si sviluppa con il soggetto attraverso il medium, il tipo di tensione psicologica che si crea a seconda della modalità con cui si fotografa. E’ la liturgia dello scatto ad affascinarmi. Non sempre accade, ovviamente, di riuscire a cogliere delle persone cose che vanno al di là, anche della mia stessa volontà, dipende molto dalla sensibilità di colui che è ritratto. Ma sicuramente il collodio, in questa nostra epoca digitale in cui l’immagine spesso è banalizzata e non ce ne sono mai state in circolazione così tante come adesso, è un modo per tornare a ragionare sul ritratto ponendosi in maniera diversa nei confronti del soggetto.”

A fare da contrappunto a una modernità impersonale, che tende alla rarefazione più che alla densità, che si è scordata, pare, il piacere della fabula, il piacere che deriva dal rendere favolosa l’informazione fotografica, c’è questa magia del collodio. Che, come tutte le magie, non avviene in modo regolato e ha un fascino misterioso, dovuto forse alla sua arcaicità; luogo privilegiato di un evento che ha del sorprendente perché l’esito non è mai dato per certo e i fattori che mutano la rappresentazione rendono gli effetti ogni volta diversi e unici.

“Un modo, anche, per riparare a quel senso di scollamento tra realtà ed astrazione che il lavoro quotidiano con la fotografia digitale e i relativi processi di post produzione generano. C’è invece in questa tecnica un aspetto molto importante che è quello della manualità, dell’artigianalità, qualcosa di fisico e tangibile che restituisce dignità al fare.”

Desidero ringraziare per la cortese intervista Alberto Aliverti, alberto aliverti – tintypestudiomilano, instagram – cadmiumbromide

Io indosso abito Issey Miyake e orecchini Elena Brasa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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