FIORELLA VAIR, FOTO DAL MONDO DEI SOGNI

Fiorella Vair è una giovane fotografa che vive e lavora nella Val di Susa. Le sue immagini nascono dall’amore prima di tutto, dalla ricerca dell’amore e della delicatezza in questo mondo così aggressivo. E dai sogni. Suo ultimo rifugio, lì dove non esiste dolore, nessuna perdita e nessuna morte. Solo libertà, la libertà di essere sé stessi.

Francesca Interlenghi: Per prima cosa, vorrei chiederti come ti sei avvicinata alla fotografia e che tipo di formazione hai avuto. Me ne puoi parlare?

Fiorella Vair: I miei studi esulano dalla fotografia. I miei genitori premevano per una formazione di tipo commerciale/economica, così quando mi è stata posta la fatidica domanda: che scuola vuoi fare? Ho risposto loro: una scuola commerciale. Sono riuscita a trovare una mediazione solo dopo un tesa e travagliata trattativa, optando per il liceo turistico commerciale e riuscendo così a strappare un’ora di arte, una di psicologia e ovviamente a studiare un po’ di lettere. Anni duri, lo ammetto, e provanti, nei quali mi sono sentita spesso un pesce fuor d’acqua. Mio padre e mia madre, pur essendo due persone molto colte, per ragioni di necessità hanno ripiegato su lavori che secondo me non gli appartenevano del tutto. Quando sono incappata in un libro, pubblicato negli anni Settanta, in cui mia mamma era stata pubblicata, insieme ad altri autori, in una raccolta di poesie, sono rimasta scioccata. Quella donna così abile con i numeri e la logica, celava qualcosa. La vedevo e la vedo tutt’ora scrivere, china, persa nel suo mondo. Quanto a mio padre, nutriva un amore sfrenato per i libri e una curiosità viva per la montagna, quasi unica ragione del suo vivere, che condivideva con mia madre: la bici, lo sci e la fotografia. Ero piccolina e vedevo questo aggeggio strano con cui lui trafficava e ne rimanevo incantata. La prima compatta me la regalò a 13 anni: fu amore! Iniziò a darmi una prima infarinatura, consigli che restano cari e preziosi tutt’ora. Mi piaceva la forma, il rumore dello scatto, tutto! E la natura ha subito fatto parte del mio mondo fotografico. Conservo gelosamente la prima fotografia che ho realizzato con l’aiuto di mio padre che mi aveva appeso la macchina fotografica – allora più grande di me – al collo. Aveva impostato tutto e io con un filo di ansia misto a serietà, e con la paura di rompere qualcosa, ho mirato e scattato. L’immagine restituisce loro due, i miei genitori in montagna, con un sorriso eccezionale. Due persone che si vogliono bene per davvero. E che mi hanno regalato una vita intensa fatta di viaggi, letture, studio, sport e tanta musica.

Fiorella Vair

Francesca: Quando guardo le tue immagini, mi viene da pensare che si nutrano di cultura. L’inflessione pittorica della tua luce rimanda inequivocabilmente al mondo dell’arte – della pittura in particolare. Ma anche la letteratura e la musica confluiscono nel tuo immaginario visuale e lo compongono e lo amplificano. Mi racconti come nascono le tue serie? Gli studi preparatori intendo e le suggestioni che ti muovono.

Fiorella: Le influenze sono tante, immense. Ho suonato per circa 12 anni, la musica fa parte del processo creativo. Spazio da Debussy, ai Wardruna (un gruppo musicale norvegese famoso per aver collaborato e composto la colonna sonora di Vikings), Hans Zimmer, Ennio Morricone, Nina Simone, i Two steps from hell. Senza disdegnare il rock, ovviamente ne vado matta. Ed è solo una piccola parte. Sono sempre a caccia di suoni, non potrei concepire una vita senza musica, è la musica che attiva il motore, mi fa immaginare, spesso mi trovo in difficoltà a dare un titolo alle fotografie perché farei prima a mettere il titolo del pezzo che stavo ascoltando durante lo scatto. E’ la musica che mi porta su un pezzo di carta a disegnare le mie immagini. Ma una parte da protagonisti la fanno anche  libri e la storia: amo le biografie storiche, amo i grandi cicli fantasy – Tolkien in primis – La trilogia di Mademburg. Un folle amore per Charlotte Brontë e la sua Jane Eyre, le biografie di Maria Antonietta, Enrico VIII, Il Ciclo Bretone, La voluspa, Irwine Welsh, Daniel Pennac, tutto quello che è storia mi attira follemente. A livello di arte e pittura, l’amore profondo per Caravaggio. Ma ci sono due donne meravigliose che solleticano la mia fantasia e la mia curiosità: Artemisia Gentileschi perché la sua storia è avvincente, ed Élisabeth Vigée Le Brun perché il suo stile é inconfondibile, una donna a corte, ardita, tenace, una delle poche ad essere ammessa all’Accademia Reale di pittura e scultura in quell’epoca. Di donne è popolato il mio mondo: sono donne ardite, combattenti nate, intelligenti, come Eleonora d’Aquitania, Sarah Churchill, duchessa di Marlborough. Il mio processo creativo si sviluppa partendo da una musica o un film biografico di sottofondo, oppure con una frase di un libro che mi ha colpita. Poi prendo un foglio di carta e annoto le mie riflessioni. Infine disegno, meglio dire faccio uno schizzo, scarabocchi disordinati perché io stessa sono una grande disordinata. Così, piano piano, comincio a organizzare lo scatto.

Fiorella Vair

Francesca: I Paesi Bassi, le Fiandre, l’estetica fiamminga in senso lato, quali influenze hanno esercitato sul tuo lavoro di fotografa? Cosa ti attrae così tanto di quel mondo?

Fiorella: Le nature morte dei pittori fiamminghi erano già all’avanguardia a quell’epoca. La committenza di allora non desiderava ritratti ispirati al cristianesimo – a differenza di quello che avveniva in Italia e Spagna – ma prediligeva le nature morte, ritratti di famiglia o scene di vita quotidiana. Mi sono innamorata dei colori e dell’uso della luce che hanno condizionato molto la mia fotografia anche se una spinta motrice davvero forte in questo momento la esercita su di me la cultura norrena, le lande gelate e selvagge di Svezia e Norvegia. Vi è qualcosa di ancestrale che mi attrae, una forza davvero prepotente, l’antica lingua Norse, la mitologia nordica ricca di spunti. E ancora: il simbolismo, il mistero, le grandi saghe.

Fiorella Vair

Francesca: Poetiche, romantiche, astratte dal tempo e dallo spazio, le tue donne vivono – spesso volano – come collocate in una dimensione di mezzo, tra finito e infinito. O meglio sarebbe dire in una continua tensione verso l’infinito. Se è vero che la fotografia è deputata a cristallizzare un momento, un attimo, che poi è quello dello scatto, la tua cosa aspira a rendere immobile ed eterno?

Fiorella: Aspira, come in un’esposizione ai raggi X, a rendere tangibile il mio inconscio, cristallizzare qualcosa che non c’è. Mi piace l’idea di riuscire a raccontare una favola, o ancora meglio una leggenda, ma con il finale aperto, una sorta di: c’era una volta… e poi dare foglio e penna a chi guarda le immagini. Un suggerimento, sussurrato magari all’orecchio. Questo luogo esiste nel dormiveglia, un limbo, una sorta di luogo a metà. Forse è anche una discussione interiore con la mia spiritualità. Ho frequentato una scuola media gestita dai fratelli delle scuole cristiane: anni di studi intensi, scanditi purtroppo anche dal piegamento delle ginocchia su uno scranno, quasi un prezzo da pagare per una cultura un po’ più approfondita. Da lì è nato il dubbio, da lì la ribellione che mi accompagna tutt’oggi. Cerco poesia, cerco determinati movimenti, cerco sonorità, forse è così che cerco di immortalare un suono. Forse perché quando sogno non devo chiedere il permesso a nessuno, sono libera.

Fiorella Vair

Francesca: In questo immaginario denso di riferimenti onirici, di colori saturi, di oggetti a valore fortemente simbolico, in cui il flusso dell’inconscio, come per i Surrealisti, sembra essere il motore generativo della tua creatività, reale e irreale si fondo insieme grazie a un lavoro di post-produzione che elabora le tue composizioni. Mi parli un po’ della tua tecnica fotografica? Quanto e come questa incide nel tuo processo creativo?

Fiorella: Dal colore ai simboli cerco sempre di essere precisa, non mi separo mai dal mio vocabolario di simboli e significati che mi aiuta molto nella fase creativa. E’ un’ esplorazione di me e di questo vasto mondo. Il Surrealismo mi ha sempre affascinato, un movimento artistico che ho amato studiare e approfondire. La mia tecnica fotografica non è mai a mano libera: scatto con il cavalletto e ottiche fisse che sono elementi imprescindibili per me perché cerco sempre stabilità, controllo, precisione in fase di scatto – dall’angolazione al punto di ripresa – per poi lavorare il tutto con photoshop. La post-produzione mi serve per ottenere il risultato che desidero, un mero strumento, anche se si stanno ampliando le mie curiosità e la mia intenzione è di lavorare le stampe con materiali che esulano dalla fotografia: penso ad esempio ad interventi con la pittura o con stoffe. La mia tecnica fotografia è in continua evoluzione, man mano che studio migliora. A fare da contrappunto al disordine che permea la mia vita c’è questa precisione chirurgica, ordinata e quasi asettica, che uso in fotografia. Anche lo studio dei colori è in continuo aggiornamento oltre che fonte di molte frustrazioni. Sono alla ricerca di colori intensi, d’impatto, e di giochi sofisticati, eleganti come il neutro. Sono in realtà molto severa con me stessa.

Fiorella Vair

Francesca: Durante la pandemia hai spostato l’obiettivo della macchina fotografica dall’altro a te, lavorando sul tema dell’auto-ritratto, mi riferisco nello specifico a Lockdown project. Ovviamente non avevi a disposizione null’altro che te stessa e quindi, in un certo qual modo, la scelta si è rivelata obbligata. Eppure dall’Io singolo la tua attenzione si è spostata presto verso l’Io multiplo. Non si tratta semplicemente della ripetizione di te quanto piuttosto della replica di te, intendo il termine replica nel senso di risposta che contiene una contraddizione o un’obiezione. Molteplicità, frammentarietà, contraddizione appunto, sono tutti elementi connessi alla nostra identità. Cosa andavi cercando? Una risposta, multipla anch’essa, alla situazione di emergenza?

Fiorella. L’autoscatto mi ha sempre attirato eppure mi bloccavo. Significava mettersi in gioco, osare, e io sotto sotto avevo paura delle reazioni che poteva suscitare. Poi, durante la pandemia, mi sono presa d’animo e coraggio e ho cominciato. All’inizio ero impacciata nei movimenti e nei gesti e allora lì è affiorata la mia dualità. C’erano due Fiorelle: una diceva e sapeva la posa che dovevo assumere, l’altra mi urlava di smettere perché non ero in grado. Sono riuscita a mettere a tacere quella voce brontolona, che non aveva il suono della mia voce ma piuttosto assomigliava a quella dei miei ex compagni di liceo, sebbene fossero passati oltre 15 anni. Credo che la nostra psiche sia composta di varie parti, di diverse porte, e dietro a ciascuna di esse vi sono varie sfaccettature di noi. E sono infinite e non sapremo mai davvero chi siamo. Ho iniziato a vedermi in fotografia come sdoppiata, anzi moltiplicata, e nelle foto una me aiuta l’altra a farsi forza nel posare, a prestarsi al progetto, a realizzare lo scatto che desidero. Con le modelle non osavo fino in fondo spiegare il progetto, una sorta di vergogna, di incapacità a dire. Sapevo perfettamente che l’unica persona che poteva raccontare quello che avevo in testa e quello che sentivo ero io, ed era solo questione di mettersi in gioco. Il lockdown mi ha permesso di sperimentare con i materiali, di investire tempo e forze, di osare in fase di post-produzione, di delineare un nuovo uso della luce.

Fiorella Vair

Francesca: Probabilmente sotto l’influenza del luogo in cui sei nata e cresciuta, anche la natura svolge un ruolo centrale nella tua poetica. Paesaggi invernali, oceani, alberi secolari, lune giganti e stormi di uccelli si mescolano insieme all’umano, alla sua presenza. Ma in una perfetta fusione, armonica. Cosa rappresenta la natura per te? E come intendi rappresentare in fotografia la relazione corpo-natura?

Fiorella: Vivo in Val Susa, divisa fra Borgone e Sestriere, e non cambierei posto per nulla al mondo. La mia famiglia amava la montagna, a livello quasi viscerale, e così sono cresciuta in mezzo al verde. Soffoco in città, non è proprio il mio ambiente. Invece la natura la sento viva e in comunione con l’uomo. La natura per me è la vita, è generatrice di una forza enorme e pertanto va rispettata, onorata e anche temuta. Vedo come la natura alla fine si riprende gli spazi, anche corporei, una fusione fatta di rami, muschio e polvere. Un ciclo che ci sarà per sempre. La mia fotografia cerca di mostrare questa unione vitale, mortale e finale, che non si spezza mai per davvero. Allo stesso modo non cambierei mai il luogo in cui vivo: fra cielo e terra.

Fiorella Vair

Francesca: A cosa stai lavorando adesso? E quali sono i tuoi progetti per il futuro?

Fiorella: Sto lavorando a una serie intitolata Private whisper soul, un lavoro in autoscatto, una serie sui sussurri dell’anima. Tra i progetti futuri credo vi sarà il monocromo e la sperimentazione con i materiali, sempre in autoscatto.

Fiorella Vair

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