Guardando indietro a quando ho iniziato, quasi cinque anni fa oramai, trovo adesso ridicoli l’ingenuità e il candore con i quali tutto è cominciato. Avevo solo una vaga sensazione dentro di me, qualcosa di mistico, di quello che avrei voluto fare. E la certezza che il silenzio fosse più importante della parola in sé. Da lì è stato sempre e solo un lavoro di sottrazione, uno sforzo a togliere. Scarnificando il segno, asciugando il ritmo.
Oggi, qui, è il desiderio di rendere aderente anche l’immagine a quel silenzio che mi muove, come fossero due luminescenze parallele, come se l’enigma del silenzio potesse essere risolto anche visivamente in un bianco e nero a tutto tondo dove l’assenza del verbo è assoluta. Un’immersione nel vuoto e nel nulla. Il silenzio ammutolito del corpo.
Di Giorgio Finadri, che ha scattato queste immagini a margine di un lavoro più articolato e complesso fatto insieme sulla dinamica delle forme e del movimento, avevo scritto partendo da un testo di Copi, il drammaturgo argentino il cui teatro, irriverente e poetico insieme, non ha mai smesso di andare alla ricerca di una profondità esistenziale.
Alla fine di quel nostro primo confronto – ma tanti, sul senso della fotografia, continuano a fare da sfondo alla nostra amicizia – avevo riportato in calce al testo le parole di Gianna ne La giornata di una sognatrice, di Copi appunto, quando dice: “Bisogna correre attraverso la vita per arrivare a morire allo stesso tempo in cui si muore. E’ questo che ti volevo dire. Soprattutto in tempo di guerra.”
A riguardarle, queste luci e queste ombre, a riguardarmi, mi sembra emerga ancora lo sforzo di un’espansione possibile del corpo, lo sforzo teso a trovare un perché. E’ sempre un silenzio imperfetto, penso, quello che cerca motivo a un’esistenza fugace e casuale. Quello che corre attraverso la vita e sfida la rimozione continua affidandosi alle immagini. Affidandosi alla lente deformante eppure veritiera della macchina fotografica.
Foto di Giorgio Finadri, Facebook – The Dummy’s Tales