LA MODA NON E’ PIU’ DI MODA

“Per cena indosso sempre lo smoking, anche quando siamo a tavola soltanto la duchessa ed io, e così faccio, ovviamente, ogni volta che sono invitato a pranzo da qualche amico, anche molto intimo. Non potrei presentarmi a tavola senza l’abito adatto e quell’abito lo indosso anche in quelle rare occasioni in cui mi capita di pranzare o cenare da solo. Quando invece mi reco a una cena in un ristorante di poco conto, in qualche locale più rinomato per la sua cucina che per la sua clientela, evito ormai di mettermi in smoking e preferisco indossare un abito severo, ma da pomeriggio. Mi comporto così per uniformarmi ai miei vicini di tavolo, per mimetizzarmi con gli altri clienti del locale. Nessuno dei miei amici può dire di avermi visto, anche una volta soltanto, in un abbigliamento men che corretto. Ho sempre cercato di indossare l’abito giusto al momento giusto.

Il 10 settembre 1961 il Duca di Windsor rilasciò una lunga intervista al settimanale l’Europeo in cui parlò, tra le altre cose, di appropriatezza. E sembra proprio essere stata l’appropriatezza l’elemento centrale di uno stile che egli coltivò più di ogni altra cosa nel suo approccio all’abbigliamento.

Ph. Edit Divided John, La moda non è più di moda

Il concetto di appropriatezza – ciò che si addice a qualcosa o a qualcuno –  è quello che più mi ha colpito nel fiume di parole con le quali Giorgio Armani ha dato voce, tra le pagine dell’autorevole WWD, a quello che lui stesso ha definito il declino del sistema moda.

“[…] basta con la moda come gioco di comunicazione, basta con le sfilate in giro per il mondo, al solo scopo di presentare idee blande. Basta intrattenere con spettacoli grandiosi che oggi si rivelano per quel che sono: inappropriati, e voglio dire anche volgari. Basta con le sfilate in tutto il mondo, fatte tramite i viaggi che inquinano. Basta con gli sprechi di denaro per gli show, sono solo pennellate di smalto apposte sopra il nulla. Il momento che stiamo attraversando è turbolento, ma ci offre la possibilità, unica davvero, di aggiustare quello che non va, di togliere il superfluo, di ritrovare una dimensione più umana… Questa è forse la più importante lezione di questa crisi.”

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Un sentimento, il suo, nemmeno tanto latente in un’industria che negli ultimi anni ha camminato, stando ferma, lungo la strada del non-cambiamento, della non-sperimentazione intesa in senso sostanziale più che formale. Un’industria che, accontentandosi di un veloce restyling della propria grammatica – slow, less, quality, sustainability o revolution – si è accontentata di perpetuare i suoi meccanismi secondo regole, strutture e dinamiche ancorate a un tempo inesorabilmente passato. Un tempo che ha prodotto la deflagrazione della moda, perfino della sua immagine e del suo immaginario fiaccato da ritmi insostenibili che ne hanno progressivamente depauperato il potenziale creativo.

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Venendo meno la substantia è venuta meno anche la forma perché sostanziale è ciò che sub-stans, ciò che sta sotto e che fonda le cose. Sono venute meno le fondamenta e forse questa pandemia non ha fatto altro che evidenziarlo, evidenziando una crisi che si pone inevitabilmente come momento di separazione e di necessario, sempre più necessario, discernimento tra un prima in cui – dice bene Li Edelkoort nel suo Manifesto Anti-Fashion – si facevano vestiti e un dopo in cui auspicabilmente si tornerà a fare moda e cioè a ri-pensare, attraverso i vestiti, il nostro modo di essere, di camminare, di stare dentro il mondo e difronte a esso. Cosicché la moda possa arrogarsi di nuovo il diritto di essere un fatto culturale, assolvendo appieno la sua funzione di fenomeno capace di coltivare e sviluppare un discorso di senso sull’Uomo.

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Torno sul termine “inappropriato” perché potrei dire, e non direi nulla di nuovo, che oggi inappropriato è il sistema convulso di produzione della moda e quello stagnante della sua distribuzione e commercializzazione o ancora quello della sua messa in scena. Molto spesso la pervicace spettacolarizzazione della moda, alla quale ripetutamente assistiamo, rischia di produrre poco altro oltre il ripiegamento della moda su sé stessa, oltre al suo, e al nostro, ripetuto stazionamento in territori onirici: perimetro di apprezzabili esercizi estetici a cui fanno da corollario magari altrettanti apprezzabili rimandi di felliniana memoria. Ma poi? Ma oltre?

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Invece dirò che più di tutto trovo inappropriato il modo in cui la moda legge – cioè non sa più leggere – le istanze della contemporaneità. Imperdonabile mancanza che oggi non la rende più territorio d’avanguardia, avamposto di feroce lotta creativa, magari utopica, però generativa. Piuttosto la trasforma in un’infelice appendice di una specie di teatro dell’assurdo in cui la drammaturgia, scritta pure male, instaura monologhi senza senso per un pubblico nemmeno più pagante. Sul palcoscenico resiste solo il senso tragico del dramma che stanno vivendo i personaggi.

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Per superare la contemporaneità bisogna essere capaci di decifrarla, di capirla, di metabolizzarla. Nessuno spirito innovativo – e il Duca lo sapeva bene – può scardinare regole o tradizioni senza prima possederne la loro totale padronanza. Certo non è facile essere padroni del nostro tempo: il tempo dell’incertezza, della dispersione, della frammentarietà. Ma forse è proprio da qui, da questo senso di sgretolamento, da una crisi che non è solo pandemica ma è endemica e che ci riguarda tutti, riguarda l’uomo post moderno, che si potrebbe ripartire per immaginare un’alter-modernità (per dirla con Bourriaud). Una dimensione più concreta, più tangibile e meno immateriale della cultura della moda che guardando indietro guardi avanti come è proprio della circolarità imperfetta del tempo che la regola. E guardando indietro recuperi la nozione di abito come habitus: un modo di essere, una disposizione dell’animo. E guardando avanti pensi al vestito come vestimento: tutto ciò che siamo destinati o soliti avere con noi, a portarci dietro continuamente. Provando magari a produrre singolarità in un mondo sempre più standardizzato.

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Photo Editing by Divided John – FacebookInstagram 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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