RITA CAPUNI

In un giorno che pioveva. Il suo andare irregolare e diverso mi è parso come uno squarcio improvviso sul cammino della mia indagine. Perché segnava traiettorie inusuali e faceva presagire orizzonti di insubordinazione frutto di un viaggio libero e sviante. Mi affidavo, così, alla deriva di un malessere quasi estatico fatto di pathos e rappresentazioni fitte, apparentemente impenetrabili.

“Moda? Una parola che trovo proprio antipatica. Il mio è più che altro uno studio, una ricerca, e nel mio percorso creativo la parola ricerca ha un peso molto significativo. Vuol dire crescere, cambiare, esser in costante evoluzione. Anche a livello personale quello che cercavo un mese fa è diverso da quello che cerco ora.”

Una parte della vita spesa a Londra “da lì mi sono portata certe consapevolezze, una libertà di essere” e poi, al ritorno in Italia, la decisione di rimettersi a studiare per conseguire il diploma in fashion design nella sua città, Pescara. Affascinata dalla scuola di Anversa “quella parte d’Europa mi ha sempre interessato e i famosi sei hanno veramente stravolto le regole del mondo moda; è stato per me uno studio davvero importante arrivare ad Ann Demeulemeester”, Rita Capuni crea abiti minimali, rigorosi, incapaci di sottrarsi al nero assoluto, che vivono nell’ispirazione delle architetture urbane e si alimentano di una componente maschile molto accentuata “con la quale ora convivo bene perché mi rende me stessa, ma che spesso è arrivata agli altri in maniera distorta senza essere compresa.”

Ecco che tutti gli spiazzamenti del vivere si sono trasformati a un certo punto in conduttori di energie altre, veicolo di una forza che stava in fondo alle viscere e affermava la sua ispirazione alla sopravvivenza. Spazi e territori, se pur distrutti, si sono ripopolati di forme e contenuti nuovi.

“Tutto è autobiografico, anche quando parlo di cicatrici, anche quando dico che indosso le mie cicatrici. Ma hanno una valenza positiva se intese come segni che fanno progredire e rinascere. I segni ci sono e io attingo da quelli, da quello che ho, dai pezzi della mia storia.”

I miei abiti sono il modo attraverso il quale io esprimo me stessa perciò quando creo non devo fare altro che cercare dentro di me. Io sono così e quello che esce sono io. Con la mia collezione dico di me.

Abiti che vivono nella sintassi di un linguaggio non vincolato a valori prestabiliti, al di fuori di qualunque presunzione di un discorso univoco e di un sapere unico, inteso come di massa.

“Io voglio vestire una persona che è arrivata a conoscere sé stessa, che sa quello che vuole indossare. Una donna lontana dagli stereotipi, che non cerca tendenze, che non cerca la cosa che va di moda con la pretesa di abbinarla a un’altra cosa che qualcuno ha deciso essere di moda. Una donna che mescola, che contamina, che indossa abiti maschili e femminili in maniera indifferente, che conosce bene la propria identità e sessualità. La mia è una donna che pretende di affermare sé stessa. Ci sono arrivata tardi ma forse è giusto così. Non so se a 20 anni avrei potuto fare una collezione come questa, bella o brutta che sia non mi sarebbe uscita una cosa del genere.”

Abiti che sono percorsi da moti repentini e veloci, un’espressione dinamica mutuata dalla danza. Come se nell’espandersi delle forme fosse custodita in segreto una espansione, ancora possibile, del corpo e della mente verso una ricerca del perché.

“Anche la danza è un elemento al quale sono molto legata. Infatti le mie sono elaborazioni fluide, dalla vestibilità molto ampia. Io lavoro molto sulle asimmetrie e forse questa cosa mi viene dalla danza contemporanea, intendo che è proprio il fuori asse a interessarmi ed è il mondo in cui costruisco il cartamodello. Questo per me significa ricerca: sperimentare quello che può uscire da un quadrato.”

Abiti che fanno propria quella propulsione che trasforma l’oscuro in energia dinamica. Il nero consente il ricomporsi dei frammenti in una esperienza unitaria dai contorni ben definiti, in un fondo che è mutevole e al tempo stesso strutturato, seducente e misterioso insieme.

Per quanto riguarda il nero è proprio una pulizia, è arrivato come pulizia di tutti gli eccessi miei avuti, sia mentali che fisici, di tutto il mio strafare. Rappresenta la ricerca, la crescita, la scelta, tante cose. Poi è austero, tagliente, ha un impatto anche visivo molto forte.

La moda si impone come un esistente reale e concreto che non cessa di evolversi e di muoversi, al pari del suo creatore. La moda, come rigenerazione del proprio io, si manifesta in una mescolanza di vitalità intensissima capace di scendere nel piano profondo del processo creativo senza sottoporlo a forzature o alterità.

“Cosa mi immagino nell’immediato futuro? Una crescita graduale e coerente, che sia mia, voglio dire in accordo con quello che sono. Un lavoro artigianale di qualità come quello che sto portando avanti, magari con la possibilità di essere affiancata da un piccolo team di persone con le quali confrontarmi. Non chissà quali pretese come vedi, se non quella di essere totalmente aderente a me stessa.”

Desidero ringraziare per la cortese intervista Rita CapuniInstagram.

Foto di Elisabetta Brian

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