ALBERTO NIDOLA, UN’ INTERVISTA

F: Quando ti ho preso le mani, ho capito come sei giovane. Mani di colore vivo, che hanno toccato solo quello che hanno scelto. Gli occhi dei bambini con le lacrime intrappolate dentro. Le nuvole in corsa. La bellezza di un corpo nel buio. La fuga prima del temporale. Il profumo di un’ortensia. Tutte le parole non dette, chiuse nelle mani. Le mie. Che simulano l’atto del rubare con quella rotazione a ventaglio delle dita dal mignolo all’indice. Vorrei rubare il tuo segreto, chiederti chi sei.

A: Vengo da Castagnole Piemonte, un piccolo paese in provincia di Torino. Il terzo di quattro figli e nessun parente, tranne la mia nonna, che si sia mai interessato all’arte. Mia nonna ci è arrivata dopo la morte di suo marito. Lei dipinge, con un cucchiaio. Io non saprei spiegare il perché di questa mia vena creativa ma l’ho in me da sempre, come fosse una cosa naturale, nonostante faccia ancora molta fatica a far capire alla mia famiglia quello che faccio, il significato e la potenza che l’arte reca in sé. Quando poi dalla dimensione piccola e ristretta della provincia sono venuto a Torino ecco, è stato in quel momento esatto che è iniziata una specie di rivoluzione. La moda scelta come indirizzo di studi al Liceo Artistico, io unico maschio della classe, e poi la fotografia e poi ancora la curiosità per tutto, il tanto che mi circondava, a cui è seguita una vera e propria trasformazione fisica e spirituale. Una necessità, quella dell’esprimermi.

F: Qualcosa che ci accomuna: la moda. Cerco anche io, chiuso da qualche parte nella memoria, il ricordo del vestito buono della domenica di cui oggi si è persa l’abitudine. Il suo profumo, il rustico complimento delle donne di campagna. E poi, crescendo, un sentimento quasi irrazionale eppure molto concreto, solido direi. Il sentimento della moda. Un’emozione che non mi ha mai abbandonata. 

A: Mia madre mi ha sempre molto ispirato in fatto di moda, ricordo quanto ci divertivamo la domenica a scegliere insieme gli abiti da indossare per andare alla messa. Ma fin da piccolo ho disegnato, inventato, creato vestiti e scarpe soprattutto, facendo incontri anche importanti come quello con Ennio Capasa, il fondatore del brand CoSTUME NATIONAL, quando ero giovanissimo. O più recentemente con il designer torinese Matteo Thiela che mi ha permesso di scattare alcune immagini delle sue creazioni e di farlo con il mio personalissimo linguaggio. Perché durante il Liceo Artistico, a un certo punto, la moda non mi è veramente più bastata e ho sentito di voler iniziare il mio percorso fotografico: imparando da solo, senza frequentare corsi, con una macchina che mi era stata regalata. Ma cercando, cercando sempre, confrontandomi con gli altri, mettendomi continuamente in gioco, nutrendomi di immagini su immagini tant’è che adesso ne ho circa 8.000 tutte conservate in una cartella che raccoglie la gran parte delle mie ricerche.

F: Sagome sconosciute dentro una luce netta, bianca e nera. Un filo di parole. Tramonti che paiono contenere tutte le attese. Immagini che vibrano di sensazioni, qualcosa che si lega alla natura, alla vita, alla personalità, ai sentimenti. Mi affascina la rapida successione di queste tue sequenze fotografiche, il loro mistero sottinteso. Quello tuo. Della tua arte espressiva.

A: Un viaggio in particolare ha cambiato il mio modo di intendere la fotografia ed è stato quando, due anni fa, sono andato insieme a un’amica in Vietnam. E’ stato lì che ho visto persone capaci di vivere della bellezza di ogni giorno pur non avendo nulla. Ho imparato la bellezza e quindi nelle mie foto, in quello che faccio, nelle persone che conosco, voglio lasciare questa stessa impronta. E’ stato lì che ho iniziato a concepire la fotografia in bianco e nero perché mi sembra che fissi di più e meglio l’attimo, che lo renda immortale, più immortale forse. E ogni volta che lo rivedo è come se lo rivivessi, sento quello che ho provato nell’istante della foto. E così anche le sequenze, come fossero la scomposizione di quello stesso momento. E’ una fotografia che non so ancora tanto bene spiegare, ci sono le ombre e lo sfondo che è sempre l’elemento più importante, più della figura umana che non sempre si rivela completamente ma piuttosto si intuisce dall’ombra che disegnano i capelli o le mani. E allora io riguardandola, guardando la sua luce bianca e nera, mi ricordo in maniera nitida di quel momento ed è come se potessi riviverlo.

F: Ma c’è anche l’ostinazione del colore, la luce calda e gentile che chiude i rumori di fuori. Sosto rannicchiata ai margini del mondo, dentro un involucro nero e soffice di sogni. E vorrei che nessuno venisse a turbare questa pace, nessun ospite ruvido. Fate piano, penso. 

A: Sono rimasto letteralmente folgorato dal modo in cui dipingevano Caravaggio e Tintoretto. Mi affascina l’uso di questa luce di derivazione pittorica, i contrasti, i colori che vorrei poter trasferire nella fotografia con la stessa intensità con la quale i miei occhi li vedono. E amo lo sfondo nero perché mi dà la possibilità di concentrarmi sui visi, mi permette di andare a fondo, una sorta di introspezione psicologica. Il colore come incentivo alla sperimentazione, è questo l’insegnamento più grande, almeno fino adesso, del corso di scultura che sto frequentando all’Accademia delle Belle Arti di Venezia. Sperimentare sempre, anche nella fotografia, mettendomi in gioco, adeguandomi anche a quello che vogliono gli altri, imparando il significato della parola resilienza.

F: E adesso un sasso per ciascuno, un sasso piccolo e da seduti. Inizio io a lanciare, io che dei sassi non sento mai il rumore della fine. E questa cosa mi fa molta paura, sembra che siano sempre i sassi sbagliati. E tu? Hai paura anche tu?

A: In verità io ho paurissima perché non ho un’ opzione A, ho solo tantissime opzioni B che derivano dal desiderio irrinunciabile di poter vivere in maniera poliedrica. Dal bisogno di essere molto attivo, energico, di non fermarmi mai, di non essere una cosa sola. Non vorrei mai un giorno dover dire che faccio solo il fotografo.

Che poi, a essere sinceri, ho sempre una cascina a casa che mi aspetta e chissà… potrei sempre fare il contadino. Vedi? Quella potrebbe essere l’opzione A!

Abbiamo riso a lungo divertiti, e siamo andati via. Io con gli occhi fissi sulle mie mani.

“Quando ti ho preso le mani

ho capito

come sei giovane. 

Le mie dita sono sottili:

si plasmano alle cose

e a lungo ne conservano

l’impronta

per uno spino sanguinano

per una piuma tremano

di dolcezza.

Le mie mani sono così pallide:

attraversate dalla vita

in ogni senso – come

da lunghe vene

azzurre…”

(Le mani, Antonia Pozzi – tratto dalla raccolta Guardami: sono nuda)

Tutte le foto sono di Alberto Nidola che desidero ringraziare per la cortese intervista – InstagramFacebook

Io indosso abiti della collezione SS/18 di Matteo Thiela

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