GIANCARLO FABBI, IL SILENZIO DELLA PITTURA

Si intitola “Il silenzio della pittura” la mostra di Giancarlo Fabbi, a cura di Massimo Recalcati, promossa da Istituzione Bologna Musei – Museo Morandi, che ha inaugurato lo scorso 19 aprile presso Casa Morandi.

Una serie di dieci fotografie che compongono un ritratto dell’artista Giorgio Morandi attraverso gli strumenti primi del suo lavoro: i tubetti di colore, i pennelli, le matite. L’essenza della sua poetica pittorica si svela in immagini che mai cedono il passo alle lusinghe dell’artificio facendo emergere, in tutta la loro dignitosa compostezza, da un fondo bianco di luce, la realtà del mondo e delle cose che gli sono appartenute. Elementi ordinari ed essenziali che indagati dallo sguardo del fotografo vengono perpetuati e consacrati all’immortalità in una serie di composizioni e ricomposizioni geometriche.

Ascetismo estetico che riduce gli oggetti a sintassi unitaria. E’ il modo di fare fotografa di Giancarlo Fabbi. Un linguaggio asciutto, rigoroso, privo di qualsiasi retorica così simile, negli intenti, all’arte del pittore e incisore bolognese che è stato uno dei grandi protagonisti del Novecento. Una grammatica visiva capace di instaurare un dialogo vicendevole tra due modi di sentire il mondo, quello della pittura e quello della fotografia, e che riconsegna la pittura alla pittura, alla sua essenza, alle sue radici. Al profondo mistero del suo silenzio.

Il mio testo tratto dal catalogo della mostra edito da NFC di Amedeo Bartolini & C. sas – Rimini

 <<Pour le poète, le soleil n’est pas toujours le soleil…>> Kazimir Malévitch

GIANCARLO FABBI, FRAMMENTI DI DIALOGO

testo di Francesca Interlenghi

F: “Perché fai fotografie?” ti ho chiesto un giorno. “Perché non ne posso fare a meno” mi hai risposto senza indugio. Ti chiedo oggi, quasi fosse prosecuzione naturale di quell’incipit tra noi, cosa c’è di irrinunciabile nella fotografia?

G: Sarebbe come se Linus perdesse la sua coperta! Fotografare è un abbraccio caldo, un atto d’amore, la fotocamera una amante discreta che tieni tra le mani e ti fa vedere un mondo diverso.

F: Con il tempo hai capito che tutte quelle immagini in divenire erano particelle inalienabili della tua esistenza. E il medium fotografico è diventato il tuo mezzo di comunicazione privilegiato, l’unico adesso. E’ arrivato lento quel tempo? O ci ha messo il tempo che doveva? Il tempo che serviva a che tu fossi pronto per transitare dallo sguardo meccanico all’apparizione dell’immagine?

G: Ho incominciato a fotografare giovanissimo, era il 1974, e sono andato avanti per diversi anni. Poi, un lungo periodo buio. E, per la stessa incomprensibile ragione per cui avevo smesso, improvvisamente il bisogno si è ripresentato in tutta la sua prepotenza. Le immagini mi passavano davanti e io dovevo fermarle.

F: Quando nasce la fotografia dentro di te? Prima di essere immagine, l’immagine cosa è? Un gesto d’amore? Un processo che ti permette di vedere meglio? O di vederti meglio? Forse tutte queste cose insieme?

G: Ci sono giorni in cui mi sveglio e l’unica ragione, l’unico senso di quella giornata è prendere la fotocamera e uscire e andare dove il cuore, la mente e l’occhio mi conducono. Risultato: un orgasmo intellettuale.

F: Fotografo senza etichetta ho scritto di te da qualche parte, appunti sparsi in fogli itineranti. Quando, davanti alle tue foto, mi è sembrato di stare davanti all’oggettivazione di un percepire che si muove tra la vita e gli oggetti, l’animato e l’inanimato. Davanti all’ammirazione della realtà tutta mi vien da dire.

G: Dici bene, fotografo senza etichetta! Oggi va di moda, almeno nel mondo della fotografia, lavorare per progetto; i concorsi, le gallerie, tutti che chiedono progetti, che chiedono di indagare un tema ben definito, tanto meglio se trendy. Io vado contro corrente, se così si può dire, io voglio e debbo fotografare ciò che mi chiama. E’ la realtà che ci circonda nella sua interezza a chiedermi di rappresentarla, di estrarre quel frammento che, da solo, la mostri per ciò che è.

F: Ecco allora il corpo nudo, le città e gli edifici, le nature morte, gli oggetti lasciati dal Maestro Morandi. Cose visibili che rimandano alla natura invisibile delle cose. 

G: Come dicevo prima, citando un celebre frase di Cartier Bresson, la fotografia nasce quando il cuore, la mente e l’occhio sono sulla stessa linea. Quindi si: le città, il nudo, le nature morte. Eclettismo? Fotografia prostituta che si apre a chicchessia? Continuando le citazioni, Massimo Recalcati ha scritto di me: coglie, fissa, riduce il tutto del mondo all’essenziale di una visione, di una sola immagine.

Tant’è che io non attribuisco mai un titolo alle mie fotografie, indico solamente l’anno in cui l’immagine è stata scattata, a volte magari il luogo, ma niente più. Voglio, come in una lirica Haiku, lasciare spazio all’osservatore perché si lasci trasportare dall’emozione generata dall’immagine e lo conduca fin dove arriva il suo intimo.

F: Un linguaggio fotografico ridotto all’essenza il tuo, privo di artifici e di ridondanza, in cui perfino il colore è sottratto al colore.

G: Questa domanda mi costringe ad una ulteriore citazione: in natura non esistono i colori, esistono solo le luci e le ombre. Così affermava Paul Cezanne. Ho sempre e solo fotografato in bianco e nero, salvo una rara eccezione per il lavoro sugli oggetti lasciati dal Maestro Morandi. Non mi interessa il colore di quella gonna, se gialla o rossa, se il vaso è blu, se la pelle di una donna donna è abbronzata o no. Mi interessa la forma che scaturisce dal contrasto tra la luce e il buio.

F: E la scelta dell’analogico, parte anche quella della stessa sintassi poetica?

G: Certo! L’analogico, lavorando in bianco e nero, ti consente di ottenere nella stampa finale una scala di grigi infinita a cui la fotografia digitale ancora oggi non può ambire. Inoltre la foto analogica non perdona, l’immagine nasce e muore nella frazione di secondo in cui premi il pulsante di scatto e la pellicola si “impressiona”.

F: Se dovessi, con il linguaggio che mi è più congeniale, accostarti a un poeta direi di te che evochi nel mio cuore la grazia mite di Govoni o Corazzini o Moretti. Perché è lì, dove il tono si smorza, lì dove albergano le cose piccole da te ritratte, è lì che trova pace il mio animo girovago. Nel crepuscolo. Della tua fotografia. 

“ […] E noi si va chi sa dove

poveri illusi, si va

in cerca di felicità,

verso città sempre nuove,

verso l’ignoto e la sera!

Invece lì nel giardino

veduto dal finestrino

c’è tutta la primavera […]”

da “Il giardino della stazione”  – Marino Moretti

Giancarlo Fabbi – sito webFacebookInstagram

Giancarlo Fabbi, Il silenzio della pittura – Bologna Casa Morandi, 20 aprile – 1 luglio 2018

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