Ogni volta che arrivo a questo punto dell’anno e mi siedo per provare a tirare le fila di quanto sognato e poi effettivamente realizzato, la prima cosa che penso, prima ancora di interrogarmi sui contenuti di quello che scriverò, è: chissà se tra un anno sarò ancora qui, esattamente qui come sono adesso, a onorare questa data con lo stesso coraggio e timore, la stessa fierezza e umiltà.
Se sarò ancora qui a maledire tutte le notti di scrittura che mi sembra mi siano toccate in sorte e con esse una certa visione del reale che implica sempre tanta fatica, tanta dedizione, così tanta messa in discussione. “Ma uno non può che seguire la propria natura” mi ha detto una volta un caro amico e così ho fatto quel giorno di quattro anni fa in cui The Dummy’s Tales ha visto la luce. Ho seguito la mia natura.
Sono semplicemente salita su un palcoscenico con la spavalderia di chi è inconsapevole di tutto, l’ingenuità temeraria di chi ignora i meccanismi che regolano il funzionamento di un teatro, e ho iniziato a recitare a soggetto. Non c’era nessun copione e non c’erano battute scritte da altri, c’ero solo io che improvvisavo e improvvisando mettevo in scena me stessa e il mio rapporto con le cose d’intorno. Con la moda e l’arte principalmente ma non con il loro esito finale, non il risultato estetico fine a sé stesso, direi piuttosto con la loro genesi e funzione e la loro interazione. Mi è sempre interessato capire più che giudicare, pormi domande più che dare risposte e credo che questo emerga, in maniera incontrovertibile, da tutti gli incontri fatti che poi hanno preso la forma di parole e immagini combinate insieme, un tutt’uno indissolubile.
Ricordo bene che il giorno in cui questo modesto spettacolo ha debuttato le luci in sala erano spente, la platea vuota e non avevo nemmeno i costumi di scena. Ma nonostante tutto, senza mezzi e senza meriti, mi sono messa dritta e in piedi al centro del palco, seppur al buio, e ho iniziato a parlare, a dire le mie cose. Quelle che avevo tenuto sempre dentro ma che erano lì e c’erano tutte. E io lo sapevo. E per un tempo ininterrotto ho continuato a pensare e a trasformare i pensieri in parole e a recitarle poi quelle parole, senza gli elementi artificiosi di cui potevano avvalersi gli altri, solo con la dedizione e la passione di chi decide di assecondare la propria inclinazione.
Un giorno, ma non saprei dire con esattezza quando, mi sono accorta che c’era un discreto pubblico seduto in sala ad osservarmi, che qualcuno aveva acceso un riflettore sul palco, mi avevano portato perfino degli abiti e ogni tanto i più audaci imbastivano un applauso.
Ecco, quel giorno mi sono fermata io per un attimo, io per una volta sola, a godermi lo spettacolo. Mi sono seduta a guardare tutto quel poco che avevo messo insieme. Poco eppure tanto.
E’ stato un giorno di quattro anni fa quando sono salita sul palcoscenico, il palcoscenico della vita. E, mossa solo da una intuizione, ho iniziato a recitare la mia storia.
Foto Elisabetta Brian
Abiti, Elle Venturini Collezione 2033
Collana, Dalaleo
Location courtesy of Teatro Libero Milano