IL GUSTO DEL SAKE’

Scorrono davanti agli occhi, con compostezza che disarma, immagini di vita narrate con la delicatezza e la gentilezza che solo a Ozu Yasujiro, il più giapponese di tutti i registi giapponesi, appartiene. Nell’essenzialità, nel rigore stilistico, in quel modo garbato di rappresentare l’animo umano che è tipico dell’Oriente, prende forma la comprensione profonda dei fatti umani.

E’ Il gusto del sakè, l’ultimo dei capolavori di Ozu, restaurato e digitalizzato, a rivivere in tutto il suo splendore grazie al nuovo progetto della Tucker Film (www.tuckerfilm.com). Un progetto realizzato in collaborazione con la storica major nipponica Shochiku, il Far East Film Festival di Udine e FICE – Federazione italiana dei cinema d’essai. Tucker Film nasce nel 2008 per iniziativa di Cinemazero di Pordenone e del Centro Espressioni Cinematografiche (C.E.C.) di Udine che decidono di unire le forze per avviare una nuova attività distributiva e produttiva. Due sono principalmente i fronti sui quali è impegnata: le produzioni legate al territorio e alla cultura regionale e la distribuzione di opere asiatiche. Con l’ambizioso obbiettivo di dare spazio a un cinema indipendente, che possa soddisfare l’intelletto e che non abbia solo funzione di intrattenimento, la Tucker Film ha dato nuova vita ai 6 capolavori del maestro giapponese. Dal leggendario Viaggio a Tokyo fino a Il giusto del sakè è andata di nuovo in scena la magia di questo cinema gentile come lo ha sapientemente definito Kiarostami, di quel cinema che ha stregato Wim Wenders tanto da fargli dire “Mai prima di lui e mai dopo di lui il cinema è stato così prossimo alla sua essenza e al suo scopo ultimo.” Scomparso nel 1963, Ozu Yasujiro diceva di considerarsi un semplice venditore di tofu. Ma il semplice venditore di tofu, studente mediocre e regista geniale, è l’uomo che ha saputo portare il cinema nipponico ad altezze vertiginose.

Il gusto del sakè contiene tutti i temi cari a Ozu: i vecchi che si attardano in chiacchiere lente davanti a un bicchiere di sakè, memorie nostalgiche di una guerra che si è persa, un padre vedovo con una figlia in età da matrimonio, tentativi di combinare unioni, l’emancipazione femminile che timidamente fa capolino, consumismo e tecnologia che avanzano, il reciproco sostentamento tra genitori e figli. Vicende permeate dal filo conduttore della solitudine, perché siamo tutti soli ripetono i protagonisti mentre l’inquadratura indugia su un uomo ubriaco e sulla figlia che piange con il volto stretto tra le mani. Secondi silenziosi a scandire la gravosa essenza dell’uomo. E la macchina da presa immortala i sentimenti con la stessa abilità con cui immortala scorci di vicoli malmessi e insegne di locali che trascinano il pensiero alle immagini della provincia americana ritratta da Jim Jarmusch che da Ozu è stato influenzato.

Il film si conclude con la separazione tra padre e figlia. Un atto che va fatto quello di far sposare l’unica figlia. Un atto dovuto, necessario per quanto doloroso. Un atto che si impone come antagonista all’egoismo dal quale tutti siamo attratti, prima che sia troppo tardi, prima che tocchi pentirsene. Ancora la macchina indugia sull’uomo, curvo su sé stesso, che piange la propria solitudine in una sera d’autunno. Al tramonto in autunno la montagna risplende di mutevoli colori, alcuni sono pallidi, altri sono brillanti… dice la canzone in sottofondo.

Il cinema di Ozu è un luogo dello spirito più che un luogo fisico. Uno spazio in cui è necessario ritirarsi, di tanto in tanto, per riflettere sulle stagioni della vita. Per commuoversi. Per ridere. Per amare la straordinaria semplicità con la quale tutto il mistero del vivere, alla fine, viene spiegato.

 

 

 

 

 

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