SILVIA AMODIO

In quale oceano in quale notte

la sto perdendo

chiesi al delfino

Disse il delfino:

nell’acqua nera

dove quello che unisce separa

dove il silenzio è un boato

dove sei perso anche tu

(Michele Mari, Cento poesie d’amore a Ladyhawke)

 

“La passione per la fotografia? In realtà non l’ho mai avuta, io volevo fare la ricercatrice e studiare gli animali. Molti raccontano di aver ricevuto la macchina fotografica in dono dal papà, magari alla comunione o alla cresima e di aver iniziato a fotografare molto presto. Ecco, io no. Io studiavo a Bologna Filosofia del Linguaggio e volevo andare alle Hawaii per la mia tesi sulle competenze linguistiche dei delfini. Per dimostrare che quello che stavo facendo era una questione molto seria, sebbene all’epoca tutti la considerassero una scelta bizzarra, avevo deciso di documentare il mio lavoro e all’ultimo mi sono fatta prestare da uno zio una vecchia Olympus. E così sono partita. Ancora adesso penso che la fotografia sia uno strumento da utilizzare in maniera rigorosa, utile a documentare, sempre finalizzata a un progetto, non riesco a fotografare solo per il piacere di farlo.

Alle Hawaii, in un centro studi molto esclusivo al quale era davvero difficile accedere, unica italiana presente, Silvia Amodio studiava le modalità di comunicazione tra l’uomo e i delfini, ignara della vita di fotografa che l’attendeva. Al centro di tutte le riflessioni, interazioni e relazioni, la capacità dei delfini di comprendere i linguaggi artificiali da un punto di vista semantico e sintattico, ovvero di comunicare con l’uomo secondo delle precise regole grammaticali.

La curiosità e l’amore nei confronti degli animali è qualcosa con cui sono nata, non saprei dire altrimenti, perché nessuno mi ha insegnato a vederli in un certo modo. Quando ero piccola ero addirittura convinta di comunicare in maniera telepatica con loro, ero certa che fossero miei amici e mi capissero. Passavo molto tempo a guardare le formiche dalle quali ero profondamente affascinata per via del loro rigore, della loro disciplina e della divisione di ruoli. Tutto mi affascinava, anche un piccolo stagno, non avevo bisogno di grandi cose, mi bastava calarmi in quella realtà di cui mi sentivo parte integrante.”

Le persone arrivano dopo, in un percorso fotografico che è chiaramente diviso in due, in cui lo spartiacque netto e preciso lo determina un viaggio in Africa datato 2005. Risucchiata in un campo profughi, in una dimensione mai sperimentata prima, l’umano diventa immagine, fissata al millesimo di secondo, sorpresa in una folgorante momentaneità. Per la prima volta il mondo noto resta fuori. Fuori la certezza di zebre, elefanti e giraffe. Dentro gli sguardi urgono i paesaggi esistenziali.

“Ho sentito come se una luce mi chiamasse da lì dentro e sono rimasta un mese e mezzo dentro un campo profughi nella periferia di Cape Town, nella zona dove c’è la più alta densità di morti a causa dell’ Aids. Fotografavo, all’epoca ancora in pellicola, le persone senza nemmeno poter vedere il risultato, investendo tutti i miei risparmi in qualcosa di ignoto, qualcosa che non sapevo bene dove mi avrebbe portata. Una volta a casa ho organizzato il materiale e mi sono resa conto che invece era interessante. E’ diventato la serie Volti Positivi, che ha riscosso molto successo, tanto che un’opera tratta da questo progetto è stata premiata ed esposta nell’edizione 2008 del Taylor Wessing Photographic Prize indetto dalla National Portrait Gallery di Londra.”

Cercare e trovare la propria identità professionale allineando etica ed estetica. Passando attraverso un grande rigore scientifico e una imprescindibile progettualità. Facendo conoscere cose di cui si sente forse poco parlare come Aids, pedofilia clericale, malattie genetiche rare, bambini lavoratori. Rispettando sempre la dignità delle persone e facendo brillare, anche in mezzo alla sofferenza, il lato decoroso di uomini e donne e bambini. Restituendo infine un lavoro che pare fatto in studio pur essendo realizzato con l’approccio del reportage.

Lavorare con le persone? Tutta un’altra storia… Io ero abituata a fotografare i selvatici, a stare ferma immobile e in silenzio. Mica potevo chiedergli di spostarsi in favore della luce giusta. Era tutta e solo una questione di empatia con loro, di giochi di sguardi, di qualcosa di magico che passa dentro e crea, anche solo per una frazione di secondo, un legame. La scuola con gli animali è stata fondamentale perché mi ha insegnato la comunicazione non verbale, quella fatta di gesti e di mimica, quella che mi è sempre venuta in aiuto nei momenti di difficoltà, anche quando fotografavo le persone. Non sempre, infatti, avevo la possibilità di dialogare, perché in alcuni luoghi sperduti i dialetti locali erano davvero incomprensibili”

Insieme a Coop Lombardia molte collaborazioni in ambito comunicazione, articolati progetti legati al solidale di cui la foto è solo elemento parziale, immediatamente visibile, ma tassello di un tutto più complesso. Come la campagna Alimenta l’amore che ha permesso di allestire presso tutti i propri punti vendita milanesi una raccolta permanente di cibo per cani e gatti poi distribuito, attraverso il Comune presso le associazioni animaliste.

Un progetto al quale sono molto affezionata perché mi consente di aiutare concretamente molti animali e perché è partito insieme a Elio Fiorucci, un compagno di strada straordinario. Nato in sordina, ora raccoglie oltre 8 tonnellate di cibo al mese.” 

O come il progetto fotografico itinerante Human Dog che ritrae i cani insieme ai loro padroni con lo scopo di raccontarne la relazione, oggetto del set fotografico allestito al Castello Sforzesco di Milano per celebrare il giorno di San Valentino. Protagonista assoluto l’animale, pretesto per indagare la società e le sue evoluzioni.

“Famiglia significa amore e rispetto per l’altro. Chi meglio di un cane poteva aiutarmi a rappresentarla? Lui, che è il simbolo stesso della fedeltà, della dedizione e dell’amore incondizionato. E nonostante fosse il giorno degli innamorati pochi erano gli innamorati, molte le persone sole, i single e gli anziani e questo dato è molto interessante. Perché, ritornando alla scienza e al rigore, la fotografia registra come stanno le cose. Il progetto dura da 5 anni ed ha il senso e il valore di una ricerca zooantropologica”.

Ora Silvia vive con la Nina. La Nina è una gallina e la loro convivenza è un fatto molto serio a discapito delle apparenze. Come tutti i polli anche lei è tacciata di stupidità ed è tra gli animali più maltrattati e forse sconosciuti del pianeta. Serviva dimostrare la possibilità di un’altra forma di relazione al di fuori della padella. “Perché abbiamo perso, ed è una grande perdita, il contatto con la natura. C’è stato, nel dopoguerra soprattutto, con il boom economico, un allontanamento spaziale e cognitivo dagli animali ed è un danno enorme. Non sapersi confrontare con le diversità, non saper vedere un’alterità secondo me è proprio grave.”

Quello che è considerato il più stupido animale sulla faccia della Terra ci sta insegnando tantissime cose, per esempio che può esistere un modo nuovo e creativo di sperimentare un rapporto e basta seguire la pagina Facebook della Nina per comprendere le infinite sfumature, ora ironiche, ora amorevoli, perfino stupefacenti, di una quotidianità a tu per tu con una gallina.

Mi sento fortunata nel mio lavoro, ho raggiunto traguardi importanti ed esposto in musei e luoghi istituzionali in tutto il mondo ma sono sempre molto critica nei confronti di me stessa. Il fatto di non aver frequentato una scuola è stato, da un lato, un grosso limite perché non ho avuto dei riferimenti, delle guide, dall’altro, però, mi ha permesso di fotografare senza condizionamenti e mi ha reso credo più libera.”

Libera di fare con la sua fotografia un’operazione di ricognizione del reale. Libera di esplorare e scandagliare le infinite sfaccettature dell’esistere.

Desidero ringraziare per la cortese intervista la giornalista e fotografa Silvia Amodio  – www.silviaamodio.comfacebook.

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